LA VITA NOVA
I
In quella parte del libro de la mia memoria, dinanzi a la quale
poco si potrebbe leggere, si trova una rubrica la quale dice: Incipit vita nova. Sotto la quale
rubrica io trovo scritte le parole le quali è mio intendimento
d’asemplare in questo libello; e se non tutte, almeno la loro
sentenzia.
II
Nove fiate già appresso lo mio nascimento
era tornato lo cielo de la luce quasi a uno medesimo punto,
quanto a la sua propria girazione, quando a li miei occhi
apparve prima la gloriosa donna de la mia mente, la quale fu
chiamata da molti Beatrice, li quali non sapeano che si
chiamare. Ella era in questa vita già stata tanto, che ne lo
suo tempo lo cielo stellato era mosso verso la parte d’oriente
de le dodici parti l’una d’un grado, sì che quasi dal
principio del suo anno nono apparve a me, ed io la vidi quasi
da la fine del mio nono. Apparve vestita di nobilissimo
colore, umile ed onesto, sanguigno, cinta e ornata a la guisa
che a la sua giovanissima etade si convenia. In quello punto
dico veracemente che lo spirito de la vita, lo quale dimora ne
la secretissima camera de lo cuore, cominciò a tremare sì
fortemente che apparia ne li mènimi polsi orribilmente; e
tremando, disse queste parole: «Ecce
deus fortior me, qui veniens dominabitur mihi».
In quello punto lo spirito animale, lo quale dimora ne l’alta
camera ne la quale tutti li spiriti sensitivi portano le loro
percezioni, si cominciò a maravigliare molto, e parlando
spezialmente a li spiriti del viso, sì disse queste parole: «Apparuit iam beatitudo vestra».
In quello punto lo spirito naturale, lo quale dimora in quella
parte ove si ministra lo nutrimento nostro, cominciò a
piangere, e piangendo, disse queste parole: «Heu miser, quia frequenter impeditus ero
deinceps!». D’allora innanzi dico che Amore
segnoreggiò la mia anima, la quale fu sì tosto a lui
disponsata, e cominciò a prendere sopra me tanta sicurtade e
tanta signoria per la vertù che li dava la mia imaginazione,
che me convenia fare tutti li suoi piaceri compiutamente. Elli
mi comandava molte volte che io cercasse per vedere questa
angiola giovanissima; onde io ne la mia puerizia molte volte
l’andai cercando, e vedèala di sì nobili e laudabili
portamenti, che certo di lei si potea dire quella parola del
poeta Omero: Ella non parea
figliuola d’uomo mortale, ma di Deo. E avegna
che la sua imagine, la quale continuamente meco stava, fosse
baldanza d’Amore a segnoreggiare me, tuttavia era di sì
nobilissima vertù, che nulla volta sofferse che Amore mi
reggesse sanza lo fedele consiglio de la ragione in quelle
cose là ove cotale consiglio fosse utile a udire. E però che
soprastare a le passioni e atti di tanta gioventudine pare
alcuno parlare fabuloso, mi partirò da esse; e trapassando
molte cose, le quali si potrebbero trarre de l’esemplo onde
nascono queste, verrò a quelle parole le quali sono scritte ne
la mia memoria sotto maggiori paragrafi.
A ciascun'alma presa, e gentil core, nel cui cospetto ven lo dir presente, in ciò che mi rescrivan suo parvente salute in lor segnor, cioè Amore. Già eran quasi che atterzate l'ore del tempo che onne stella n'è lucente, quando m'apparve Amor subitamente cui essenza membrar mi dà orrore. Allegro mi sembrava Amor tenendo meo core in mano, e ne le braccia avea madonna involta in un drappo dormendo. Poi la svegliava, e d'esto core ardendo lei paventosa umilmente pascea: appresso gir lo ne vedea piangendo.
Questo sonetto si divide in due parti; che la prima parte saluto e domando risponsione, ne la seconda significo a che si dee rispondere. La seconda parte comincia quivi: Già eran.
A questo sonetto fue risposto da molti e di diverse sentenzie; tra li quali fue risponditore quelli cui io chiamo primo de li miei amici, e disse allora uno sonetto, lo quale comincia: Vedesti al mio parere onne valore. E questo fue quasi lo principio de l’amistà tra lui e me, quando elli seppe che io era quelli che li avea ciò mandato. Lo verace giudicio del detto sogno non fue veduto allora per alcuno, ma ora è manifestissimo a li più semplici.
IV
Da questa visione innanzi cominciò lo mio spirito naturale ad
essere impedito ne la sua operazione, però che l’anima era tutta
data nel pensare di questa gentilissima; onde io divenni in
picciolo tempo poi di sì fràile e debole condizione, che a molti
amici pesava de la mia vista; e molti pieni d’invidia già si
procacciavano di sapere di me quello che io volea del tutto
celare ad altrui. Ed io, accorgendomi del malvagio domandare che
mi faceano, per la volontade d’Amore, lo quale mi comandava
secondo lo consiglio de la ragione, rispondea loro che Amore era
quelli che così m’avea governato. Dicea d’Amore, però che io
portava nel viso tante de le sue insegne, che questo non si
potea ricovrire. E quando mi domandavano: «Per cui t’ha così
distrutto questo Amore?», ed io sorridendo li guardava, e nulla
dicea loro.
V
Uno giorno avvenne che questa
gentilissima sedea in parte ove s’udiano parole de la regina
de la gloria, ed io era in luogo dal quale vedea la mia
beatitudine: e nel mezzo di lei e di me per la retta linea sedea
una gentile donna di molto piacevole aspetto, la quale mi mirava
spesse volte, maravigliandosi del mio sguardare, che parea che
sopra lei terminasse. Onde molti s’accorsero de lo suo mirare;
ed in tanto vi fue posto mente, che, partendomi da questo luogo,
mi sentio dicere appresso di me: «Vedi come cotale donna
distrugge la persona di costui»; e nominandola, eo intesi che
dicea di colei che mezzo era stata ne la linea retta che movea
da la gentilissima Beatrice e terminava ne li occhi miei. Allora
mi confortai molto, assicurandomi che lo mio secreto non era
comunicato lo giorno altrui per mia vista. E mantenente pensai
di fare di questa gentile donna schermo de la veritade; e tanto
ne mostrai in poco tempo, che lo mio secreto fue creduto sapere
da le più persone che di me ragionavano. Con questa donna mi
celai alquanti anni e mesi; e per più fare credente altrui, feci
per lei certe cosette per rima, le quali non è mio intendimento
di scrivere qui, se non in quanto facesse a trattare di quella
gentilissima Beatrice; e però le lascerò tutte, salvo che alcuna
cosa ne scriverò che pare che sia loda di lei.
VI
Dico che in questo tempo che questa donna era schermo di tanto
amore, quanto da la mia parte, sì mi venne una volontade di
volere ricordare lo nome di quella gentilissima ed acompagnarlo
di molti nomi di donne, e spezialmente del nome di questa
gentile donna. E presi li nomi di sessanta le più belle donne de
la cittade ove la mia donna fue posta da l’altissimo sire, e
compuosi una pìstola sotto forma di serventese, la quale io non
scriverò: e non n’avrei fatto menzione, se non per dire quello
che, componendola, maravigliosamente addivenne, cioè che in
alcuno altro numero non sofferse lo nome de la mia donna stare,
se non in su lo nove, tra li nomi di queste donne.
VII
La donna co la quale io avea tanto tempo celata la mia
volontade, convenne che si partisse de la sopradetta cittade e
andasse in paese molto lontano: per che io quasi sbigottito de
la bella difesa che m’era venuta meno, assai me ne disconfortai,
più che io medesimo non avrei creduto dinanzi. E pensando che se
de la sua partita io non parlasse alquanto dolorosamente, le
persone sarebbero accorte più tosto de lo mio nascondere,
propuosi di farne alcuna lamentanza in uno sonetto; lo quale io
scriverò, acciò che la mia donna fue immediata cagione di certe
parole che ne lo sonetto sono, sì come appare a chi lo intende.
E allora dissi questo sonetto, che comincia: O voi che per
la via.
O voi, che per la via d'Amor passate, attendete e guardate s'elli è dolore alcun, quanto 'l mio, grave; e prego sol ch'audir mi sofferiate, e poi imaginate s'io son d'ogni tormento ostale e chiave. Amor, non già per mia poca bontate, ma per sua nobiltate, mi pose in vita sì dolce e soave, ch'io mi sentia dir dietro spesse fiate: «Deo, per qual dignitate così leggiadro questi lo core have?» Or ho perduta tutta mia baldanza, che si movea d'amoroso tesoro; ond'io pover dimoro, in guisa che di dir mi ven dottanza. Sì che volendo far come coloro che per vergogna celan lor mancanza, di fuor mostro allegranza, e dentro dallo core struggo e ploro.
Questo sonetto ha due parti principali; che ne la prima intendo chiamare li fedeli d’Amore per quelle parole di Geremia profeta che dicono: O vos omnes qui transitis per viam, attendite et videte si est dolor sicut dolor meus, e pregare che mi sofferino d’audire; nella seconda narro là ove Amore m’avea posto, con altro intendimento che l’estreme parti del sonetto non mostrano, e dico che io hoe ciò perduto. La seconda parte comincia quivi: Amor, non già.
VIII
Appresso lo partire di questa gentile donna fue piacere del
segnore de li angeli di chiamare a la sua gloria una donna
giovane e di gentile aspetto molto, la quale fue assai graziosa
in questa sopradetta cittade; lo cui corpo io vidi giacere sanza
l’anima in mezzo di molte donne, le quali piangeano assai
pietosamente. Allora ricordandomi che già l’avea veduta fare
compagnia a quella gentilissima, non poteo sostenere alquante
lagrime; anzi piangendo mi propuosi di dicere alquante parole de
la sua morte, in guiderdone di ciò che alcuna fiata l’avea
veduta con la mia donna. E di ciò toccai alcuna cosa ne l’ultima
parte de le parole che io ne dissi, sì come appare
manifestamente a chi lo intende. E dissi allora questi due
sonetti, li quali comincia lo primo: Piangete, amanti,
e lo secondo: Morte villana.
Piangete, amanti, poi che piange Amore, udendo qual cagion lui fa plorare Amor sente a Pietà donne chiamare, mostrando amaro duol per li occhi fore, perché villana Morte in gentil core ha miso il suo crudele adoperare, guastando ciò che al mondo è da laudare in gentil donna sovra de l'onore. Audite quanto Amor le fece orranza, ch'io 'l vidi lamentare in forma vera sovra la morta imagine avenente; e riguardava ver lo ciel sovente, ove l'alma gentil già locata era, che donna fu di sì gaia sembianza.
Questo primo sonetto si divide in tre parti: ne la prima chiamo e sollìcito li fedeli d’Amore a piangere e dico che lo segnore loro piange, e dico «udendo la cagione per che piange,» acciò che s’acconcino più ad ascoltarmi; ne la seconda narro la cagione; ne la terza parlo d’alcuno onore che Amore fece a questa donna. La seconda parte comincia quivi: Amor sente; la terza quivi: Audite.
Morte villana, di pietà nemica, di dolor madre antica, giudicio incontastabile gravoso, poi che hai data matera al cor doglioso, ond'io vado pensoso, di te blasmar la lingua s'affatica. E s'io di grazia ti vòi far mendica, convènesi ch'eo dica lo tuo fallar d'onni torto tortoso, non però ch'a la gente sia nascoso, ma per farne cruccioso chi d'amor per innanzi si notrica. Dal secolo hai partita cortesia e ciò ch'è in donna da pregiar vertute: in gaia gioventute distrutta hai l'amorosa leggiadria. Più non vòi discovrir qual donna sia che per le propietà sue canosciute. Chi non merta salute non speri mai d'aver sua compagnia.
Questo sonetto si divide in quattro parti: ne la prima parte, chiamo la Morte per certi suoi nomi propri; ne la seconda, parlando a lei, dico la cagione per che io mi muovo a biasimarla: ne la terza, la vitupero; ne la quarta, mi volgo a parlare a indiffinita persona, avvegna che quanto a lo mio intendimento sia diffinita. La seconda comincia quivi: poi che hai data; la terza quivi: E s’io di grazia; la quarta quivi: Chi non merta salute.
IX
Appresso la morte di questa donna alquanti die, avvenne cosa per
la quale me convenne partire de la sopradetta cittade e ire
verso quelle parti dov’era la gentile donna ch’era stata mia
difesa, avegna che non tanto fosse lontano lo termine de lo mio
andare quanto ella era. E tutto ch’io fosse a la compagnia di
molti, quanto a la vista, l’andare mi dispiacea sì, che quasi li
sospiri non poteano disfogare l’angoscia che lo cuore sentia,
però ch’io mi dilungava da la mia beatitudine. E però lo
dolcissimo segnore, lo quale mi segnoreggiava per la vertù de la
gentilissima donna, ne la mia imaginazione apparve come
peregrino leggeramente vestito e di vili drappi. Elli mi parea
disbigottito, e guardava la terra, salvo che talora li suoi
occhi mi parea che si volgessero ad uno fiume bello e corrente e
chiarissimo, lo quale sen gìa lungo questo cammino là ov’io era.
A me parve che Amore mi chiamasse, e dicèssemi queste parole:
«Io vegno da quella donna la quale è stata tua lunga difesa, e
so che lo suo rivenire non sarà a gran tempi; e però quello
cuore che io ti facea avere a lei, io l’ho meco, e pòrtolo a
donna la quale sarà tua difensione, come questa era». E
nominòllami per nome, sì che io la conobbi bene. «Ma tuttavia,
di queste parole ch’io t’ho ragionate se alcuna cosa ne dicessi,
dille nel modo che per loro non si discernesse lo simulato amore
che tu hai mostrato a questa e che ti converrà mostrare ad
altri». E dette queste parole, disparve questa mia imaginazione
tutta subitamente, per la grandissima parte che mi parve che
Amore mi desse di sé; e, quasi cambiato ne la vista mia,
cavalcai quel giorno pensoso molto ed accompagnato da molti
sospiri. Appresso lo giorno, cominciai di ciò questo sonetto, lo
quale comincia Cavalcando.
Cavalcando l'altr'ier per un cammino, pensoso de l'andar che mi sgradia, trovai Amore in mezzo de la via in abito leggier di peregrino. Ne la sembianza mi parea meschino, come avesse perduta segnoria; e sospirando pensoso venia, per non veder la gente, a capo chino. Quando mi vide, mi chiamò per nome, e disse: «Io vegno di lontana parte, ov'era lo tuo cor per mio volere; e rècolo a servir novo piacere». Allora presi di lui sì gran parte, ch'elli disparve, e non m'accorsi come.
Questo sonetto ha tre parti: ne la prima parte dico sì com’io trovai Amore, e quale mi parea; ne la seconda dico quello ch’elli mi disse, avegna che non compiutamente per tema ch’avea di discovrire lo mio secreto; ne la terza dico com’elli mi disparve.La seconda comincia quivi: Quando mi vide; la terza: Allora presi.
X
Appresso la mia ritornata mi misi a cercare di questa donna, che
lo mio segnore m’avea nominata ne lo cammino de li sospiri; e
acciò che lo mio parlare sia più brieve, dico che in poco tempo
la feci mia difesa tanto, che troppa gente ne ragionava oltre li
termini de la cortesia; onde molte fiate mi pesava duramente. E
per questa cagione, cioè di questa soverchievole voce che parea
che m’infamasse viziosamente, quella gentilissima, la quale fue
distruggitrice di tutti li vizi e regina de le virtudi, passando
per alcuna parte, mi negò lo suo dolcissimo salutare, ne lo
quale stava tutta la mia beatitudine. Ed uscendo alquanto del
proposito presente, voglio dare a intendere quello che lo suo
salutare in me virtuosamente operava.
XI
Dico che quando ella apparia da parte alcuna, per la speranza de
la mirabile salute nullo nemico mi rimanea, anzi mi giugnea una
fiamma di caritade, la quale mi facea perdonare a chiunque
m’avesse offeso; e chi allora m’avesse domandato di cosa alcuna,
la mia risponsione sarebbe stata solamente ‘Amore’, con viso
vestito d’umilitade. E quando ella fosse alquanto propinqua al
salutare, uno spirito d’amore, distruggendo tutti li altri
spiriti sensitivi, pingea fuori li deboletti spiriti del viso, e
dicea loro: «Andate a onorare la donna vostra»; ed elli si
rimanea nel luogo loro. E chi avesse voluto conoscere Amore,
fare lo potea, mirando lo tremare de li occhi miei. E quando
questa gentilissima salute salutava, non che Amore fosse tal
mezzo che potesse obumbrare a me la intollerabile beatitudine,
ma elli quasi per soverchio di dolcezza divenia tale, che lo mio
corpo, lo quale era tutto allora sotto lo suo reggimento, molte
volte si movea come cosa grave inanimata. Sì che appare
manifestamente che ne le sue salute abitava la mia beatitudine,
la quale molte volte passava e redundava la mia capacitade.
XII
Ora, tornando al proposito, dico che poi che la mia beatitudine
mi fue negata, mi giunse tanto dolore, che, partito me da le
genti, in solinga parte andai a bagnare la terra d’amarissime
lagrime. E poi che alquanto mi fue sollenato questo lagrimare,
misimi ne la mia camera, là ov’io potea lamentarmi sanza essere
udito; e quivi, chiamando misericordia a la donna de la
cortesia, e dicendo «Amore, aiuta lo tuo fedele», m’addormentai
come uno pargoletto battuto lagrimando. Avvenne quasi nel mezzo
de lo mio dormire che me parve vedere ne la mia camera lungo me
sedere uno giovane vestito di bianchissime vestimenta, e,
pensando molto quanto a la vista sua, mi riguardava là ov’io
giacea; e quando m’avea guardato alquanto, pareami che
sospirando mi chiamasse, e diceami queste parole: «Fili mi,
tempus est ut praetermictantur simulacra nostra». Allora mi
parea che io lo conoscesse, però che mi chiamava così come assai
fiate ne li miei sonni m’avea già chiamato; e riguardandolo,
parvemi che piangesse pietosamente, e parea che attendesse da me
alcuna parola; ond’io, assicurandomi, cominciai a parlare così
con esso: «Segnore de la nobiltade, e perché piangi tu?». E
quelli mi dicea queste parole: «Ego tanquam centrum circuli, cui
simili modo se habent circumferentiae partes; tu autem non sic».
Allora, pensando a le sue parole, mi parea che m’avesse parlato
molto oscuramente, sì ch’io mi sforzava di parlare, e diceali
queste parole: «Che è ciò, segnore, che mi parli con tanta
oscuritade?». E quelli mi dicea in parole volgari: «Non
dimandare più che utile ti sia». E però cominciai allora con lui
a ragionare de la salute la quale mi fue negata, e domandàilo de
la cagione; onde in questa guisa da lui mi fue risposto: «Quella
nostra Beatrice udio da certe persone, di te ragionando, che la
donna la quale io ti nominai nel cammino de li sospiri, ricevea
da te alcuna noia; e però questa gentilissima, la quale è
contraria di tutte le noie, non degnò salutare la tua persona,
temendo non fosse noiosa. Onde con ciò sia cosa che veracemente
sia conosciuto per lei alquanto lo tuo secreto per lunga
consuetudine, voglio che tu dichi certe parole per rima, ne le
quali tu comprendi la forza che io tegno sopra te per lei, e
come tu fosti suo tostamente da la tua puerizia. E di ciò chiama
testimonio colui che lo sa, e come tu prieghi lui che li le
dica; ed io, che son quelli, volentieri le ne ragionerò; e per
questo sentirà ella la tua volontade la quale sentendo,
conoscerà le parole de li ingannati. Queste parole fa che siano
quasi un mezzo, sì che tu non parli a lei immediatamente, che
non è degno; e no le mandare in parte sanza me, ove potessero
essere intese da lei, ma falle adornare di soave armonia, ne la
quale io sarò tutte le volte che farà mestiere». E dette queste
parole, sì disparve, e lo mio sonno fue rotto. Onde io
ricordandomi trovai che questa visione m’era apparita ne la nona
ora del die; e anzi ch’io uscisse di questa camera, propuosi di
fare una ballata, ne la quale io seguitasse ciò che lo mio
segnore m’avea imposto; e feci poi questa ballata, che comincia:
Ballata, i’ vo’.
Ballata, i' vo' che tu ritrovi Amore, e con lui vade a madonna davante, sì che la scusa mia, la qual tu cante, ragioni poi con lei lo mio segnore. Tu vai, ballata, sì cortesemente, che sanza compagnia dovresti avere in tutte parti ardire; ma se tu vuoli andar sicuramente, retrova l'Amor pria, ché forse non è bon sanza lui gire; però che quella che ti dee audire, sì com'io credo, è ver di me adirata: se tu di lui non fossi accompagnata, leggeramente ti faria disnore. Con dolze sono, quando se' con lui, comincia este parole, appresso che averai chesta pietate: «Madonna, quelli che mi manda a vui, quando vi piaccia, vole, sed elli ha scusa, che la m'intendiate. Amore è qui, che per vostra bieltate lo face,come vol,vista cangiare: dunque perché li fece altra guardare pensatel voi, da che non mutò 'l core». Dille: «Madonna, lo suo core è stato con sì fermata fede, che 'n voi servir l'ha 'mpronto onne pensero: tosto fu vostro, e mai non s'è smagato». Sed ella non ti crede, dì che domandi Amor, che sa lo vero: ed a la fine falle umil preghero, lo perdonare se le fosse a noia, che mi comandi per messo ch'eo moia, e vedrassi ubidir ben servidore. E dì a colui ch'è d'ogni pietà chiave, avante che sdonnei, che le saprà contar mia ragion bona: «Per grazia de la mia nota soave reman tu qui con lei, e del tuo servo ciò che vuoi ragiona; e s'ella pel tuo prego li perdona, fa che li annunzi un bel sembiante pace». Gentil ballata mia, quando ti piace, movi in quel punto che tu n'aggie onore.
Questa ballata in tre parti si divide: ne la prima dico a lei ov’ella vada, e confòrtola però che vada più sicura, e dico ne la cui compagnia si metta, se vuole sicuramente andare e sanza pericolo alcuno; ne la seconda dico quello che lei si pertiene di fare intendere; ne la terza la licenzio del gire quando vuole, raccomandando lo suo movimento ne le braccia de la fortuna. La seconda parte comincia quivi: Con dolze sono; la terza quivi: Gentil ballata.
Potrebbe già l’uomo opporre contra me e dicere che non sapesse a cui fosse lo mio parlare in seconda persona, però che la ballata non è altro che queste parole ched io parlo: e però dico che questo dubbio io lo intendo solvere e dichiarare in questo libello ancora in parte più dubbiosa; e allora intenda qui chi qui dubita, o chi qui volesse opporre in questo modo.
XIII
Appresso di questa soprascritta visione, avendo già dette le
parole che Amore m’avea imposte a dire, mi cominciaro molti e
diversi pensamenti a combattere ed a tentare, ciascuno quasi
indefensibilemente; tra li quali pensamenti quattro mi parea che
ingombrassero più lo riposo de la vita. L’uno de li quali era
questo: buona è la signoria d’Amore, però che trae lo
intendimento del suo fedele da tutte le vili cose. L’altro era
questo: non buona è la signoria d’Amore, però che quanto lo suo
fedele più fede li porta, tanto più gravi e dolorosi punti li
conviene passare. L’altro era questo: lo nome d’Amore è sì dolce
a udire, che impossibile mi pare che la sua propria operazione
sia ne le più cose altro che dolce, con ciò sia cosa che li nomi
sèguitino le nominate cose, sì come è scritto: Nomina sunt
consequentia rerum. Lo quarto era questo: la donna per
cui Amore ti stringe così, non è come l’altre donne, che
leggeramente si muova dal suo cuore. E ciascuno mi combattea
tanto, che mi facea stare quasi come colui che non sa per qual
via pigli lo suo cammino, e che vuole andare e non sa onde se ne
vada; e se io pensava di volere cercare una comune via di
costoro, cioè là ove tutti s’accordassero, questa era via molto
inimica verso me, cioè di chiamare e di mettermi ne le braccia
de la Pietà. E in questo stato dimorando, mi giunse volontade di
scriverne parole rimate; e dìssine allora questo sonetto, lo
quale comincia: Tutti li miei pensier.
Tutti li miei pensier parlan d'Amore; e hanno in loro sì gran varietate, ch'altro mi fa voler sua potestate, altro folle ragiona il suo valore, altro sperando m'aporta dolzore, altro pianger mi fa spesse fiate; e sol s'accordano in cherer pietate, tremando di paura, che è nel core. Ond'io non so da qual matera prenda; e vorrei dire, e non so ch'io mi dica: così mi trovo in amorosa erranza. E se con tutti vòi far accordanza, convènemi chiamar la mia nemica, madonna la Pietà, che mi difenda.
Questo sonetto in quattro parti si può dividere: ne la prima dico e soppongo che tutti li miei pensieri sono d’Amore; ne la seconda dico che sono diversi, e narro la loro diversitade; ne la terza dico in che tutti pare che s’accordino; ne la quarta dico che volendo dire d’Amore, non so da qual parte pigli matera, e se la voglio pigliare da tutti, convene che io chiami la mia inimica, madonna la Pietade; e dico «madonna» quasi per disdegnoso modo di parlare. La seconda parte comincia quivi: e hanno in loro; la terza quivi: e sol s’accordano; la quarta quivi: Ond’io non so.
XIV
Appresso la battaglia de li diversi pensieri avvenne che questa
gentilissima venne in parte ove molte donne gentili erano
adunate; a la qual parte io fui condotto per amica persona,
credendosi fare a me grande piacere, in quanto mi menava là ove
tante donne mostravano le loro bellezze. Onde io, quasi non
sappiendo a che io fossi menato, e fidandomi ne la persona, la
quale uno suo amico a l’estremitade de la vita condotto avea,
dissi a lui: «Perché semo noi venuti a queste donne?». Allora
quelli mi disse: «Per fare sì ch’elle siano degnamente servite».
E lo vero è che adunate quivi erano a la compagnia d’una gentile
donna che disposata era lo giorno; e però, secondo l’usanza de
la sopradetta cittade, convenia che le facessero compagnia nel
primo sedere a la mensa che facea ne la magione del suo novello
sposo. Sì che io credendomi fare piacere di questo amico,
propuosi di stare al servigio de le donne ne la sua compagnia. E
nel fine del mio proponimento, mi parve sentire uno mirabile
tremore incominciare nel mio petto da la sinistra parte e
distendersi di subito per tutte le parti del mio corpo. Allora
dico che io poggiai la mia persona simulatamente ad una pintura,
la quale circundava questa magione; e temendo non altri si fosse
accorto del mio tremare, levai gli occhi, e mirando le donne,
vidi tra loro la gentilissima Beatrice. Allora fuoro sì
distrutti li miei spiriti per la forza che Amore prese
veggendosi in tanta propinquitade a la gentilissima donna, che
non ne rimasero in vita più che li spiriti del viso; e ancora
questi rimasero fuori de li loro istrumenti, però che Amore
volea stare nel loro nobilissimo luogo per vedere la mirabile
donna. E avvegna che io fossi altro che prima, molto mi dolea di
questi spiritelli, che si lamentavano forte e diceano: «Se
questi non ci infolgorasse così fuori del nostro luogo, noi
potremmo stare a vedere la maraviglia di questa donna così come
stanno li altri nostri pari». Io dico che molte di queste donne,
accorgendosi de la mia trasfigurazione, si cominciaro a
maravigliare, e ragionando si gabbavano di me con questa
gentilissima; onde lo ingannato amico di buona fede mi prese per
la mano, e traendomi fuori de la veduta di queste donne, sì mi
domandò che io avesse. Allora io riposato alquanto, e
resurressiti li morti spiriti miei, e li discacciati rivenuti a
le loro possessioni, dissi a questo mio amico queste parole: «Io
tenni li piedi in quella parte de la vita, di là da la quale non
si puote ire più per intendimento di ritornare». E partitomi da
lui, mi ritornai ne la camera de le lagrime; ne la quale,
piangendo e vergognandomi, fra me stesso dicea: «Se questa donna
sapesse la mia condizione, io non credo che così gabbasse la mia
persona, anzi credo che molta pietade le ne verrebbe». E in
questo pianto stando, propuosi di dire parole, ne le quali,
parlando a lei, significasse la cagione del mio trasfiguramento,
e dicesse che io so bene ch’ella non è saputa, e che se fosse
saputa, io credo che pietà ne giugnerebbe altrui; e propuòsile
di dire, desiderando che venissero per avventura ne la sua
audienza. E allora dissi questo sonetto, lo quale comincia: Con
l’altre donne.
Con l'altre donne mia vista gabbate, e non pensate, donna, onde si mova ch'io vi rassembri sì figura nova quando riguardo la vostra beltate. Se lo saveste, non porìa Pietate tener più contra me l'usata prova, ché Amor, quando sì presso a voi mi trova, prende baldanza e tanta securtate, che fère tra' miei spiriti paurosi, e quale ancide, e qual pinge di fore, sì che solo remane a veder vui: ond'io mi cangio in figura d'altrui, ma non sì ch'io non senta bene allore li guai de li scacciati tormentosi.
Questo sonetto non divido in parti, però che la divisione non si fa se non per aprire la sentenzia de la cosa divisa; onde, con ciò sia cosa che per la sua ragionata cagione assai sia manifesto, non ha mestiere di divisione. Vero è che tra le parole dove si manifesta la cagione di questo sonetto, si scrivono dubbiose parole, cioè quando dico che Amore uccide tutti li miei spiriti, e li visivi rimangono in vita, salvo che fuori de li strumenti loro. E questo dubbio è impossibile a solvere a chi non fosse in simile grado fedele d’Amore; ed a coloro che vi sono, è manifesto ciò che solverebbe le dubitose parole: e però non è bene a me di dichiarare cotale dubitazione, acciò che lo mio parlare dichiarando sarebbe indarno, o vero di soperchio.
XV
Appresso la nuova trasfigurazione, mi giunse uno pensamento
forte, lo quale poco si partìa da me, anzi continuamente mi
riprendea, ed era di cotale ragionamento meco: «Poscia che tu
perviene a così dischernevole vista, quando tu se’ presso di
questa donna, perché pur cerchi di vedere lei? Ecco che tu fossi
domandato da lei, che avrestù da rispondere, ponendo che tu
avessi libera ciascuna tua vertude, in quanto tu le rispondessi?
» Ed a costui rispondea un altro umile pensero, e dicea: «S’io
non perdessi le mie vertudi, e fossi libero tanto che io le
potessi rispondere, io le direi che, sì tosto com’io imagino la
sua mirabile bellezza, sì tosto mi giugne uno desiderio di
vederla, lo quale è di tanta vertude, che uccide e distrugge ne
la mia memoria ciò che contra lui si potesse levare; e però non
mi ritraggono le passate passioni da cercare la veduta di
costei». Onde io, mosso da cotali pensamenti, propuosi di dire
certe parole, ne le quali, escusandomi a lei da cotale
riprensione, ponesse anche di quello che mi diviene presso di
lei; e dissi questo sonetto, lo quale comincia: Ciò che
m’incontra .
Ciò che m'incontra ne la mente, more, quand'i' vegno a veder voi, bella gioia; e quand'io vi son presso, i' sento Amore che dice: «Fuggi, se 'l perir t'è noia». Lo viso mostra lo color del core, che, tramortendo, ovunque pò s'appoia; e per la ebrietà del gran tremore le pietre par che gridin: «Moia, moia». Peccato face chi allora mi vide, se l'alma sbigottita non conforta, sol dimostrando che di me li doglia, per la pietà, che 'l vostro gabbo ancide, la qual si cria ne la vista morta de li occhi, c'hanno di lor morte voglia.
Questo sonetto si divide in due parti: ne la prima dico la cagione per che non mi tengo di gire presso di questa donna; ne la seconda dico quello che mi diviene per andare presso di lei; e comincia questa parte quivi: e quand’io vi son presso . Ed anche si divide questa seconda parte in cinque, secondo cinque diverse narrazioni: che ne la prima dico quello che Amore, consigliato da la ragione, mi dice quando le sono presso; ne la seconda manifesto lo stato del cuore per esemplo del viso; ne la terza dico sì come onne sicurtade mi viene meno; ne la quarta dico che pecca quelli che non mostra pietà di me, acciò che mi sarebbe alcuno conforto; ne l’ultima dico perché altri doverebbe avere pietà, e ciò è per la pietosa vista che ne li occhi mi giugne; la quale vista pietosa è distrutta, cioè non pare altrui, per lo gabbare di questa donna, la quale trae a sua simile operazione coloro che forse vederebbono questa pietà. La seconda parte comincia quivi: Lo viso mostra ; la terza quivi: e per la ebrietà ; la quarta: Peccato face ; la quinta: per la pietà.
XVI
Appresso ciò, che io dissi questo sonetto, mi mosse una
volontade di dire anche parole, ne le quali io dicesse quattro
cose ancora sopra lo mio stato, le quali non mi parea che
fossero manifestate ancora per me. La prima de le quali si è che
molte volte io mi dolea, quando a mia memoria movesse la
fantasia ad imaginare quale Amore mi facea. La seconda si è che
Amore spesse volte di subito m’assalia sì forte, che ‘n me non
rimanea altro di vita se non un pensero che parlava di questa
donna. La terza si è che quando questa battaglia d’Amore mi
pugnava così, io mi movea quasi discolorito tutto per vedere
questa donna, credendo che mi difendesse la sua veduta da questa
battaglia, dimenticando quello che per appropinquare a tanta
gentilezza m’addivenia. La quarta si è come cotale veduta non
solamente non mi difendea, ma finalmente disconfiggea la mia
poca vita. E però dissi questo sonetto, lo quale comincia: Spesse
fiate.
Spesse fiate vègnonmi a la mente le oscure qualità ch'Amor mi dona, e vènnemi pietà, sì che sovente io dico: «Lasso! avvien elli a persona?»; ch'Amor m'assale subitanamente, sì che la vita quasi m'abbandona: càmpami uno spirto vivo solamente, e que' riman, perché di voi ragiona. Poscia mi sforzo, ché mi voglio atare; e così smorto, d'onne valor vòto, vegno a vedervi, credendo guerire: e se io levo li occhi per guardare, nel cor mi si comincia uno tremoto, che fa de' polsi l'anima partire.
Questo sonetto si divide in quattro parti, secondo che quattro cose sono in esso narrate; e però che sono di sopra ragionate, non m’intrametto se non di distinguere le parti per li loro cominciamenti. Onde dico che la seconda parte comincia quivi: ch’Amor; la terza quivi: Poscia mi sforzo; la quarta quivi: e se io levo.
XVII
Poi che dissi questi tre sonetti, ne li quali parlai a questa
donna, però che fuoro narratori di tutto quasi lo mio stato,
credendomi tacere e non dire più, però che mi parea di me assai
avere manifestato, avvegna che sempre poi tacesse di dire a lei,
a me convenne ripigliare matera nuova e più nobile che la
passata. E però che la cagione de la nuova matera è dilettevole
a udire, la dicerò, quanto potrò più brievemente.
XVIII
Con ciò sia cosa che per la vista mia molte persone avessero
compreso lo secreto del mio cuore, certe donne, le quali adunate
s’erano, dilettandosi l’una ne la compagnia de l’altra, sapeano
bene lo mio cuore, però che ciascuna di loro era stata a molte
mie sconfitte; ed io passando appresso di loro, sì come da la
fortuna menato, fui chiamato da una di queste gentili donne. La
donna che m’avea chiamato, era donna di molto leggiadro parlare;
sì che quand’io fui giunto dinanzi da loro, e vidi bene che la
mia gentilissima donna non era con esse, rassicurandomi le
salutai, e domandai che piacesse loro. Le donne erano molte, tra
le quali n’avea certe che si rideano tra loro. Altre v’erano che
mi guardavano, aspettando che io dovessi dire. Altre v’erano che
parlavano tra loro. De le quali una, volgendo li suoi occhi
verso me e chiamandomi per nome, disse queste parole: «A che
fine ami tu questa tua donna, poi che tu non puoi sostenere la
sua presenza? Dilloci, ché certo lo fine di cotale amore
conviene che sia novissimo». E poi che m’ebbe dette queste
parole, non solamente ella, ma tutte l’altre cominciaro ad
attendere in vista la mia risponsione. Allora dissi queste
parole loro: «Madonne, lo fine del mio amore fue già lo saluto
di questa donna, forse di cui voi intendete, ed in quello
dimorava la beatitudine, ché era fine di tutti li miei
desiderii. Ma poi che le piacque di negarlo a me, lo mio segnore
Amore, la sua merzede, ha posto tutta la mia beatitudine in
quello che non mi puote venire meno». Allora queste donne
cominciaro a parlare tra loro; e sì come talora vedemo cadere
l’acqua mischiata di bella neve, così mi parea udire le loro
parole uscire mischiate di sospiri. E poi che alquanto ebbero
parlato tra loro, anche mi disse questa donna che m’avea prima
parlato, queste parole: «Noi ti preghiamo che tu ne dichi ove
sia questa tua beatitudine». Ed io, rispondendo lei, dissi
cotanto: «In quelle parole che lodano la donna mia». Allora mi
rispuose questa che mi parlava: «Se tu ne dicessi vero, quelle
parole che tu n’hai dette in notificando la tua condizione,
avrestù operate con altro intendimento». Onde io, pensando a
queste parole, quasi vergognoso mi partìo da loro, e venia
dicendo fra me medesimo: «Poi che è tanta beatitudine in quelle
parole che lodano la mia donna, perché altro parlare è stato lo
mio?». E però propuosi di prendere per matera de lo mio parlare
sempre mai quello che fosse loda di questa gentilissima; e
pensando molto a ciò, pareami avere impresa troppo alta matera
quanto a me, sì che non ardia di cominciare; e così dimorai
alquanti dì con disiderio di dire e con paura di cominciare.
XIX
Avvenne poi che passando per uno cammino, lungo lo quale sen gìa
uno rivo chiaro molto, a me giunse tanta volontade di dire, che
io cominciai a pensare lo modo ch’io tenesse; e pensai che
parlare di lei non si convenia che io facesse, se io non
parlasse a donne in seconda persona, e non ad ogni donna, ma
solamente a coloro che sono gentili e che non sono pure femmine.
Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per se stessa
mossa, e disse: Donne ch’avete intelletto d’amore.
Queste parole io ripuosi ne la mente con grande letizia,
pensando di prenderle per mio cominciamento; onde poi ritornato
a la sopradetta cittade, pensando alquanti die, cominciai una
canzone con questo cominciamento, ordinata nel modo che si vedrà
di sotto ne la sua divisione. La canzone comincia: Donne
ch’avete.
Donne ch'avete intelletto d'amore, i' vo' con voi de la mia donna dire, non perch'io creda sua laude finire, ma ragionar per isfogar la mente. Io dico che pensando il suo valore, Amor sì dolce mi si fa sentire, che s'io allora non perdessi ardire, farei parlando innamorar la gente: E io non vo' parlar sì altamente, ch'io divenisse per temenza vile; ma tratterò del suo stato gentile a respetto di lei leggeramente, donne e donzelle amorose, con vui, ché non è cosa da parlarne altrui. Angelo clama in divino intelletto e dice: «Sire, nel mondo si vede maraviglia ne l'atto che procede d'un'anima che 'nfin quassù risplende». Lo cielo, che non have altro difetto che d'aver lei, al suo segnor la chiede, e ciascun santo ne grida merzede. Sola Pietà nostra parte difende, ché parla Dio, che di madonna intende: «Diletti miei, or sofferite in pace che vostra spene sia quanto me piace là ov' è alcun che perder lei s'attende, e che dirà ne lo inferno: «O malnati, io vidi la speranza de' beati». Madonna è disiata in sommo cielo: or vòi di sua virtù farvi savere. Dico, qual vuol gentil donna parere vada con lei, chè quando va per via, gitta nei cor villani Amore un gelo, per che onne lor pensero agghiaccia e père; e qual soffrisse di starla a vedere diverria nobil cosa, o si morria; E quando trova alcun che degno sia di veder lei, quei prova sua vertute, ché li avvien ciò che li dona salute, e sì l'umilia ch'ogni offesa oblia. Ancor l'ha Dio per maggior grazia dato che non pò mal finir chi l'ha parlato. Dice di lei Amor: «Cosa mortale come esser pò sì adorna e sì pura?» Poi la reguarda, e fra se stesso giura che Dio ne 'ntenda di far cosa nova. Color di perle ha quasi in forma, quale convene a donna aver, non for misura; ella è quanto de ben pò far natura; per esemplo di lei bieltà si prova. De li occhi suoi, come ch'ella li mova, escono spirti d'amore inflammati, che fèron li occhi a qual che allor la guati, e passan sì che 'l cor ciascun retrova: voi le vedete Amor pinto nel viso, là 've non pote alcun mirarla fiso. Canzone, io so che tu girai parlando a donne assai, quand'io t'avrò avanzata. Or t'ammonisco, perch'io t'ho allevata per figliuola d'Amor giovane e piana, che là ove giugni tu dichi pregando: «Insegnàtemi gir, ch'io son mandata a quella di cui laude so' adornata». E se non vuoli andar sì come vana, non restare ove sia gente villana; ingègnati, se puoi, d'esser palese solo con donne o con omo cortese, che ti merranno là per via tostana. Tu troverai Amor con esso lei; raccomàndami a lui come tu dei.
Questa canzone, acciò che sia meglio intesa, la dividerò più artificiosamente che l’altre cose di sopra. E però prima ne fo tre parti: la prima parte è proemio de le sequenti parole; la seconda è lo intento trattato; la terza è quasi una serviziale de le precedenti parole. La seconda comincia quivi: Angelo clama; la terza quivi: Canzone, io so che. La prima parte si divide in quattro: ne la prima dico a cu’ io dicer voglio de la mia donna, e perché io voglio dire; ne la seconda dico quale me pare avere a me stesso quand’io penso lo suo valore, e com’io direi s’io non perdessi l’ardimento; ne la terza dico come credo dire di lei, acciò ch’io non sia impedito da viltà; ne la quarta, ridicendo anche a cui ne intenda dire, dico la cagione per che dico a loro. La seconda comincia quivi: Io dico; la terza quivi: E io non vo’ parlar; la quarta: donne e donzelle. Poscia quando dico: Angelo clama, comincio a trattare di questa donna. E dividesi questa parte in due: ne la prima dico che di lei si comprende in cielo; ne la seconda dico che di lei si comprende in terra, quivi: Madonna è disiata. Questa seconda parte si divide in due; che ne la prima dico di lei quanto da la parte de la nobilitade de la sua anima, narrando alquanto de le sue vertudi effettive che de la sua anima procedeano; ne la seconda dico di lei quanto da la parte de la nobilitade del suo corpo, narrando alquanto de le sue bellezze, quivi: Dice di lei Amor. Questa seconda parte si divide in due: che ne la prima dico d’alquante bellezze che sono secondo tutta la persona; ne la seconda dico d’alquante bellezze che sono secondo diterminata parte de la persona, quivi: De li occhi suoi. Questa seconda parte si divide in due: che ne l’una dico deli occhi, li quali sono principio d’amore; ne la seconda dico de la bocca, la quale è fine d’amore. E acciò che quinci si lievi ogni vizioso pensiero, ricòrdisi chi ci legge che di sopra è scritto che lo saluto di questa donna, lo quale era de le operazioni de la bocca sua, fue fine de li miei desiderii mentre ch’io lo potei ricevere. Poscia quando dico: Canzone, io so che tu, aggiungo una stanza quasi come ancella de l’altre, ne la quale dico quello che di questa mia canzone desidero; e però che questa ultima parte è lieve a intendere, non mi travaglio di più divisioni. Dico bene che, a più aprire lo intendimento di questa canzone, si converrebbe usare di più minute divisioni; ma tuttavia chi non è di tanto ingegno che per queste che sono fatte la possa intendere, a me non dispiace se la mi lascia stare, ché certo io temo d’avere a troppi comunicato lo suo intendimento pur per queste divisioni che fatte sono, s’elli avvenisse che molti le potessero audire.
XX
Appresso che questa canzone fue alquanto divolgata tra le genti,
con ciò fosse cosa che alcuno amico l’udisse, volontade lo mosse
a pregare me che io li dovesse dire che è Amore, avendo forse
per l’udite parole speranza di me oltre che degna. Onde io
pensando che appresso di cotale trattato, bello era trattare
alquanto d’Amore, e pensando che l’amico era da servire,
propuosi di dire parole ne le quali io trattassi d’Amore; e
allora dissi questo sonetto, lo qual comincia: Amore e ‘l
cor gentil.
Amore e 'l cor gentil sono una cosa, sì come il saggio in suo dittare pone, e così esser l'un sanza l'altro osa com'alma razional sanza ragione. Fàlli natura quand'è amorosa, Amor per sire e 'l cor per sua magione, dentro la qual dormendo si riposa tal volta poca e tal lunga stagione. Bieltate appare in saggia donna pui, che piace a gli occhi sì, che dentro al core nasce un disio de la cosa piacente; e tanto dura talora in costui, che fa svegliar lo spirito d'Amore. E simil fàce in donna omo valente.
Questo sonetto si divide in due parti: ne la prima dico di lui in quanto è in potenzia; ne la seconda dico di lui in quanto di potenzia si riduce in atto. La seconda comincia quivi: Bieltate appare. La prima si divide in due: ne la prima dico in che suggetto sia questa potenzia; ne la seconda dico sì come questo suggetto e questa potenzia siano produtti in essere, e come l’uno guarda l’altro come forma materia. La seconda comincia quivi: Fàlli natura. Poscia quando dico: Bieltate appare, dico come questa potenzia si riduce in atto; e prima come si riduce in uomo, poi come si riduce in donna, quivi: E simil fàce in donna.
XXI
Poscia che trattai d’Amore ne la soprascritta rima, vènnemi
volontade di volere dire, anche in loda di questa gentilissima,
parole per le quali io mostrasse come per lei si sveglia questo
Amore, e come non solamente si sveglia là ove dorme, ma là ove
non è in potenzia, ella, mirabilemente operando, lo fa venire. E
allora dissi questo sonetto, lo quale comincia: Negli occhi
porta.
Negli occhi porta la mia donna Amore, per che si fa gentil ciò ch'ella mira; ov'ella passa, ogn'om vèr lei si gira, e cui saluta fa tremar lo core, sì che, bassando il viso, tutto smore, e d'ogni suo difetto allor sospira: fugge dinanzi a lei superbia ed ira. Aiutatemi, donne, farle onore. Ogne dolcezza, ogne pensero umile nasce nel core a chi parlar la sente, ond'è laudato chi prima la vide. Quel ch'ella par quando un poco sorride, non si pò dicer né tenere a mente, sì è novo miracolo e gentile.
Questo sonetto sì ha tre parti. Ne la prima dico sì come questa donna riduce questa potenzia in atto, secondo la nobilissima parte de li suoi occhi; e ne la terza dico questo medesimo, secondo la nobilissima parte de la sua bocca: e intra queste due parti è una particella, ch’è quasi domandatrice d’aiuto a la precedente parte ed a la sequente, e comincia quivi: Aiutatemi, donne. La terza comincia quivi: Ogne dolcezza. La prima si divide in tre; che ne la prima parte dico sì come virtuosamente fae gentile tutto ciò che vede, e questo è tanto a dire quanto inducere Amore in potenzia là ove non è; ne la seconda dico come reduce in atto Amore ne li cuori di tutti coloro cui vede; ne la terza dico quello che poi virtuosamente adopera ne’ loro cuori. La seconda comincia quivi: ov’ella passa; la terza quivi: e cui saluta. Poscia quando dico: Aiutatemi, donne, do a intendere a cui la mia intenzione è di parlare, chiamando le donne che m’aiutino onorare costei. Poscia quando dico: Ogne dolcezza, dico quello medesimo che detto è ne la prima parte, secondo due atti de la sua bocca; l’uno de li quali è lo suo dolcissimo parlare, e l’altro lo suo mirabile riso; salvo che non dico di questo ultimo come adopera ne li cuori altrui, però che la memoria non puote ritenere lui né sua operazione.
XXII
Appresso ciò non molti dì passati, sì come piacque al glorioso
sire lo quale non negòe la morte a sé, colui che era stato
genitore di tanta maraviglia quanta si vedea ch’era questa
nobilissima Beatrice, di questa vita uscendo, a la gloria
eternale se ne gìo veracemente. Onde, con ciò sia cosa che
cotale partire sia doloroso a coloro che rimangono e sono stati
amici di colui che se ne va; e nulla sia sì intima amistade come
da buon padre a buon figliuolo e da buon figliuolo a buon padre;
e questa donna fosse in altissimo grado di bontade, e lo suo
padre, sì come da molti si crede e vero è, fosse bono in alto
grado; manifesto è che questa donna fue amarissimamente piena di
dolore. E con ciò sia cosa che, secondo l’usanza de la
sopradetta cittade, donne con donne e uomini con uomini
s’adunino a cotale tristizia, molte donne s’adunaro colà dove
questa Beatrice piangea pietosamente: onde io veggendo ritornare
alquante donne da lei, udio dicere loro parole di questa
gentilissima, com’ella si lamentava; tra le quali parole udio
che diceano: «Certo ella piange sì, che quale la mirasse
doverebbe morire di pietade». Allora trapassaro queste donne; ed
io rimasi in tanta tristizia, che alcuna lagrima talora bagnava
la mia faccia, onde io mi ricopria con porre le mani spesso a li
miei occhi: e se non fosse ch’io attendea audire anche di lei,
però ch’io era in luogo onde se ne gìano la maggior parte di
quelle donne che da lei si partìano, io mi sarei nascoso
incontanente che le lagrime m’aveano assalito. E però dimorando
ancora nel medesimo luogo, donne anche passaro presso di me, le
quali andavano ragionando tra loro queste parole: «Chi dee mai
essere lieta di noi, che avemo udita parlare questa donna così
pietosamente?». Appresso costoro passaro altre donne, che
veniano dicendo: «Questi ch’è qui, piange né più né meno come se
l’avesse veduta, come noi avemo». Altre dipoi diceano di me:
«Vedi questi che non pare esso, tal è divenuto». E così passando
queste donne, udio parole di lei e di me in questo modo che
detto è. Onde io poi, pensando, propuosi di dire parole, acciò
che degnamente avea cagione di dire, ne le quali parole io
conchiudesse tutto ciò che inteso avea da queste donne; e però
che volentieri l’averei domandate, se non mi fosse stata
riprensione, presi tanta matera di dire come s’io l’avesse
domandate ed elle m’avessero risposto. E feci due sonetti; che
nel primo domando in quello modo che voglia mi giunse di
domandare; ne l’altro dico la loro risponsione, pigliando ciò
ch’io udio da loro sì come lo mi avessero detto rispondendo. E
comincia lo primo: Voi che portate la sembianza umile,
e l’altro: Se’ tu colui c’hai trattato sovente.
Voi, che portate la sembianza umile, con li occhi bassi mostrando dolore, onde venite che 'l vostro colore par divenuto de pietà simile? Vedeste voi nostra donna gentile bagnar nel viso suo di pianto Amore? Ditelmi, donne, che 'l mi dice il core, perch'io vi veggio andar sanz'atto vile. E se venite da tanta pietate, piàcciavi di restar qui meco alquanto, e qual che sia di lei no 'l mi celate. Io veggio li occhi vostri c'hanno pianto, e vèggiovi tornar sì sfigurate, che 'l cor mi triema di vederne tanto.
Questo sonetto si divide in due parti: ne la prima chiamo e domando queste donne se vegnono da lei, dicendo loro che io lo credo, però che tornano quasi ingentilite; ne la seconda le prego che mi dicano di lei. La seconda comincia quivi: E se venite.
Qui appresso è l’altro sonetto, sì come dinanzi avemo narrato.
Se' tu colui, c'hai trattato sovente di nostra donna, sol parlando a nui? Tu risomigli a la voce ben lui, ma la figura ne par d'altra gente. E perché piangi tu sì coralmente, che fai di te pietà venire altrui? Vedestù pianger lei, che tu non pui punto celar la dolorosa mente? Lascia pianger a noi e triste andare (e fa peccato chi mai ne conforta), che nel suo pianto l'udimmo parlare. Ell'ha nel viso la pietà sì scorta, che qual l'avesse voluta mirare sarebbe innanzi lei piangendo morta.
Questo sonetto ha quattro parti, secondo che quattro modi di parlare ebbero in loro le donne per cui rispondo; e però che sono di sopra assai manifesti, non m’intrametto di narrare la sentenzia de le parti, e però le distinguo solamente. La seconda comincia quivi: E perché piangi; la terza: Lascia pianger a noi; la quarta: Ell’ha nel viso.
XXIII
Appresso ciò per pochi dì, avvenne che in alcuna parte de la mia
persona mi giunse una dolorosa infermitade, onde io
continuamente soffersi per nove dì amarissima pena; la quale mi
condusse a tanta debolezza, che me convenia stare come coloro li
quali non si possono muovere. Io dico che ne lo nono giorno,
sentendo me dolere quasi intollerabilmente, a me giunse uno
pensero, lo quale era de la mia donna. E quando èi pensato
alquanto di lei, ed io ritornai pensando a la mia debilitata
vita; e veggendo come leggero era lo suo durare, ancora che sana
fosse, sì cominciai a piangere fra me stesso di tanta miseria.
Onde, sospirando forte, dicea fra me medesimo: «Di necessitade
convene che la gentilissima Beatrice alcuna volta si muoia». E
però mi giunse uno sì forte smarrimento, che chiusi li occhi e
cominciai a travagliare sì come farnetica persona ed a imaginare
in questo modo; che ne lo incominciamento de lo errare che fece
la mia fantasia, apparvero a me certi visi di donne scapigliate,
che mi diceano: «Tu pur morrai»; e poi, dopo queste donne,
m’apparvero certi visi diversi e orribili a vedere, li quali mi
diceano: «Tu se’ morto». Così cominciando ad errare la mia
fantasia, venni a quello ch’io non sapea ove io mi fosse; e
vedere mi parea donne andare scapigliate piangendo per via,
maravigliosamente triste; e pareami vedere lo sole oscurare, sì
che le stelle si mostravano di colore ch’elle mi faceano
giudicare che piangessero; e pareami che li uccelli volando per
l’aria cadessero morti, e che fossero grandissimi terremuoti. E
maravigliandomi in cotale fantasia, e paventando assai, imaginai
alcuno amico che mi venisse a dire: «Or non sai? la tua mirabile
donna è partita di questo secolo». Allora cominciai a piangere
molto pietosamente; e non solamente piangea ne la imaginazione,
ma piangea con li occhi, bagnandoli di vere lagrime. Io
imaginava di guardare verso lo cielo, e pareami vedere
moltitudine d’angeli li quali tornassero in suso, ed aveano
dinanzi da loro una nebuletta bianchissima. A me parea che
questi angeli cantassero gloriosamente, e le parole del loro
canto mi parea udire che fossero queste: Osanna in excelsis;
ed altro non mi parea udire. Allora mi parea che lo cuore, ove
era tanto amore, mi dicesse: «Vero è che morta giace la nostra
donna». E per questo mi parea andare per vedere lo corpo ne lo
quale era stata quella nobilissima e beata anima; e fue sì forte
la erronea fantasia, che mi mostrò questa donna morta: e pareami
che donne la covrissero, cioè la sua testa, con uno bianco velo;
e pareami che la sua faccia avesse tanto aspetto d’umilitade che
parea che dicesse: «Io sono a vedere lo principio de la pace».
In questa imaginazione mi giunse tanta umilitade per vedere lei,
che io chiamava la Morte, e dicea: «Dolcissima Morte, vieni a
me, e non m’essere villana, però che tu dèi essere gentile, in
tal parte se’ stata! Or vieni a me, che molto ti desidero; e tu
lo vedi, ché io porto già lo tuo colore». E quando io avea
veduto compiere tutti li dolorosi mestieri che a le còrpora de
li morti s’usano di fare, mi parea tornare ne la mia camera, e
quivi mi parea guardare verso lo cielo; e sì forte era la mia
imaginazione, che piangendo incominciai a dire con verace voce:
«Oi anima bellissima, come è beato colui che ti vede!». E
dicendo io queste parole con doloroso singulto di pianto, e
chiamando la Morte che venisse a me, una donna giovane e
gentile, la quale era lungo lo mio letto, credendo che lo mio
piangere e le mie parole fossero solamente per lo dolore de la
mia infermitade, con grande paura cominciò a piangere. Onde
altre donne che per la camera erano, s’accorsero di me, che io
piangea, per lo pianto che vedeano fare a questa; onde faccendo
lei partire da me, la quale era meco di propinquissima
sanguinitade congiunta, elle si trassero verso me per
isvegliarmi, credendo che io sognasse, e dicèanmi: «Non dormire
più» e «Non ti sconfortare». E parlandomi così, sì mi cessò la
forte fantasia entro in quello punto ch’eo volea dicere: «O
Beatrice, benedetta sie tu»; e già detto avea «O Beatrice»,
quando riscotendomi apersi li occhi, e vidi che io era
ingannato. E con tutto che io chiamasse questo nome, la mia voce
era sì rotta dal singulto del piangere, che queste donne non mi
potero intendere, secondo il mio parere; e avvegna che io
vergognasse molto, tuttavia per alcuno ammonimento d’Amore mi
rivolsi a loro. E quando mi videro, cominciaro a dire: «Questi
pare morto», e a dire tra loro: «Procuriamo di confortarlo»;
onde molte parole mi diceano da confortarmi, e talora mi
domandavano di che io avesse avuto paura. Onde io essendo
alquanto riconfortato, e conosciuto lo fallace imaginare,
rispuosi a loro: «Io vi diròe quello ch’i’ hoe avuto». Allora,
cominciandomi dal principio infino a la fine, dissi loro quello
che veduto avea, tacendo lo nome di questa gentilissima. Onde
poi sanato di questa infermitade, propuosi di dire parole di
questo che m’era addivenuto, però che mi parea che fosse amorosa
cosa da udire; e però ne dissi questa canzone: Donna
pietosa, e di novella etate, ordinata sì come manifesta
la infrascritta divisione.
Donna pietosa, e di novella etate, adorna assai di gentilezze umane, che era là 'v'io chiamava spesso Morte, veggendo li occhi miei pien di pietate, e ascoltando le parole vane, si mosse con paura a pianger forte; E altre donne, che si fuoro accorte di me per quella che meco piangia, fecer lei partir via, e appressârsi per farmi sentire. Qual dicea: «Non dormire», e qual dicea: «Perché sì ti sconforte?» Allor lassai la nova fantasia, chiamando il nome de la donna mia. Era la voce mia sì dolorosa e rotta sì da l'angoscia del pianto, ch'io solo intesi il nome nel mio core; e con tutta la vista vergognosa ch'era nel viso mio giunta cotanto, mi fece verso lor volgere Amore. Elli era tale a veder mio colore, che facea ragionar di morte altrui: «Deh, consoliam costui,» pregava l'una l'altra umilemente; e dicevan sovente: «Che vedestù, che tu non hai valore?» E quando un poco confortato fui, io dissi: «Donne, dicerollo a vui. Mentr'io pensava la mia frale vita, e vedea 'l suo durar com'è leggero, piànsemi Amor nel core, ove dimora; per che l'anima mia fu sì smarrita, che sospirando dicea nel pensero: - Ben converrà che la mia donna mora! - Io presi tanto smarrimento allora, ch'io chiusi li occhi vilmente gravati, e furon sì smagati li spirti miei, che ciascun giva errando; e poscia imaginando, di conoscenza e di verità fora, visi di donne m'apparver crucciati, che mi dicean pur: - Morràti, morràti -. Poi vidi cose dubitose molte, nel vano imaginare ov'io entrai; ed esser mi parea non so in qual loco, e veder donne andar per via disciolte, qual lagrimando, e qual traendo guai, che di tristizia saettavan foco. Poi mi parve vedere a poco a poco turbar lo sole ed apparir la stella, e pianger elli ed ella; cader li augelli volando per l'âre, e la terra tremare; ed omo apparve scolorito e fioco, dicendomi: - Che fai? Non sai novella? morta è la donna tua, ch'era sì bella -. Levava li occhi miei bagnati in pianti, e vedea (che parean pioggia di manna) li angeli che tornavan suso in cielo, ed una nuvoletta avean davanti, dopo la qual gridavan tutti: Osanna; e s'altro avesser detto, a voi dirèlo. Allor diceva Amor: - Più nol ti celo; vieni a veder nostra donna che giace. - Lo imaginar fallace mi condusse a veder madonna morta; e quand'io l'avea scorta, vedea che donne la covrìan d'un velo; ed avea seco umilità verace, che parea che dicesse: - Io sono in pace. - Io divenia nel dolor sì umile, veggendo in lei tanta umiltà formata, ch'io dicea: - Morte, assai dolce ti tegno; tu dèi omai esser cosa gentile, poi che tu se' ne la mia donna stata, e dèi aver pietate e non disdegno. Vedi che sì desideroso vegno d'esser de' tuoi, ch'io ti somiglio in fede. Vieni, ché 'l cor te chiede.- Poi mi partìa, consumato ogne duolo; e quand'io era solo, dicea, guardando verso l'alto regno: - Beato, anima bella, chi te vede! - Voi mi chiamaste allor, vostra merzede.»
Questa canzone ha due parti: ne la prima dico, parlando a indiffinita persona, come io fui levato d’una vana fantasia da certe donne, e come promisi loro di dirla; ne la seconda dico come io dissi a loro. La seconda comincia quivi: Mentr’io pensava. La prima parte si divide in due: ne la prima dico quello che certe donne, e che una sola, dissero e fecero per la mia fantasia, quanto è dinanzi che io fossi tornato in verace condizione; ne la seconda dico quello che queste donne mi dissero, poi che io lasciai questo farneticare; e comincia questa parte quivi: Era la voce mia. Poscia quando dico: Mentr’io pensava, dico come io dissi loro questa mia imaginazione. Ed intorno a ciò foe due parti: ne la prima dico per ordine questa imaginazione; ne la seconda, dicendo a che ora mi chiamaro, le ringrazio chiusamente; e comincia quivi questa parte: Voi mi chiamaste.
XXIV
Appresso questa vana imaginazione, avvenne uno die che, sedendo
io pensoso in alcuna parte, ed io mi sentio cominciare un
tremuoto nel cuore, così come se io fosse stato presente a
questa donna. Allora dico che mi giunse una imaginazione
d’Amore; che mi parve vederlo venire da quella parte ove la mia
donna stava, e pareami che lietamente mi dicesse nel cor mio:
«Pensa di benedicere lo dì che io ti presi, però che tu lo dèi
fare». E certo me parea avere lo cuore sì lieto, che me non
parea che fosse lo mio cuore, per la sua nuova condizione. E
poco dopo queste parole, che lo cuore mi disse con la lingua
d’Amore, io vidi venire verso me una gentile donna, la quale era
di famosa bieltade, e fue già molto donna di questo primo mio
amico. E lo nome di questa donna era Giovanna, salvo che per la
sua bieltade, secondo che altri crede, imposto l’era nome
Primavera; e così era chiamata. E appresso lei, guardando, vidi
venire la mirabile Beatrice. Queste donne andaro presso di me
così l’una appresso l’altra, e parve che Amore mi parlasse nel
cuore, e dicesse: «Quella prima è nominata Primavera solo per
questa venuta d’oggi; ché io mossi lo imponitore del nome a
chiamarla così Primavera, cioè prima verrà lo die che Beatrice
si mosterrà dopo la imaginazione del suo fedele. E se anche vòli
considerare lo primo nome suo, tanto è quanto dire ‘prima
verrà’, però che lo suo nome Giovanna è da quello Giovanni lo
quale precedette la verace luce, dicendo: Ego vox clamantis
in deserto: parate viam Domini. Ed anche mi parve che mi
dicesse, dopo, queste parole: «E chi volesse sottilmente
considerare, quella Beatrice chiamerebbe Amore, per molta
simiglianza che ha meco». Onde io poi ripensando, propuosi di
scrivere per rima a lo mio primo amico, tacendomi certe parole
le quali pareano da tacere, credendo io che ancora lo suo cuore
mirasse la bieltade di questa Primavera gentile; e dissi questo
sonetto, lo quale comincia: Io mi senti’ svegliar.
Io mi senti' svegliar dentro a lo core un spirito amoroso che dormia: e poi vidi venir da lungi Amore allegro sì, che appena il conoscia, dicendo: «Or pensa pur di farmi onore»; e ciascuna parola sua ridia. E poco stando meco il mio segnore, guardando in quella parte onde venia, io vidi monna Vanna e monna Bice venir invêr lo loco là ov'io era, l'una appresso de l'altra maraviglia; e sì come la mente mi ridice, Amor mi disse: «Quell'è Primavera, e quell'ha nome Amor, sì mi somiglia».
Questo sonetto ha molte parti: la prima de le quali dice come io mi sentii svegliare lo tremore usato nel cuore, e come parve che Amore m’apparisse allegro nel mio cuore da lunga parte; la seconda dice come me parea che Amore mi dicesse nel mio cuore, e quale mi parea; la terza dice come, poi che questi fue alquanto stato meco cotale, io vidi e udio certe cose. La seconda parte comincia quivi: dicendo: Or pensa; la terza quivi: E poco stando. La terza parte si divide in due: ne la prima dico quello che io vidi; ne la seconda dico quello che io udio. La seconda comincia quivi: Amor mi disse.
XXV
Potrebbe qui dubitare persona degna da dichiararle onne
dubitazione, e dubitare potrebbe di ciò che io dico d’Amore come
se fosse una cosa per sé, e non solamente sustanzia intelligente
ma sì come fosse sustanzia corporale: la quale cosa, secondo la
veritate, è falsa; ché Amore non è per sé sì come sustanzia, ma
è uno accidente in sustanzia. E che io dica di lui come se fosse
corpo, ancora sì come se fosse uomo, appare per tre cose che
dico di lui. Dico che lo vidi venire; onde, con ciò sia cosa che
venire dica moto locale, e localmente mobile per sé, secondo lo
Filosofo, sia solamente corpo, appare che io ponga Amore essere
corpo. Dico anche di lui che ridea, e anche che parlava; le
quali cose paiono essere proprie de l’uomo, e spezialmente
essere risibile; e però appare ch’io ponga lui essere uomo. A
cotale cosa dichiarare, secondo che è buono a presente, prima è
da intendere che anticamente non erano dicitori d’amore in
lingua volgare, anzi erano dicitori d’amore certi poete in
lingua latina; tra noi, dico (avvegna forse che tra altra gente
addivenisse e addivegna ancora, sì come in Grecia), non volgari
ma litterati poete queste cose trattavano. E non è molto numero
d’anni passati, che appariro prima questi poete volgari; ché
dire per rima in volgare tanto è quanto dire per versi in
latino, secondo alcuna proporzione. E segno che sia picciolo
tempo, è che, se volemo cercare in lingua d’oco e in
quella di sì, noi non troviamo cose dette anzi lo
presente tempo per cento e cinquanta anni. E la cagione per che
alquanti grossi ebbero fama di sapere dire, è che quasi fuoro li
primi che dissero in lingua di sì. E lo primo che
cominciò a dire sì come poeta volgare, si mosse però che volle
fare intendere le sue parole a donna, a la quale era malagevole
d’intendere li versi latini. E questo è contra coloro che rìmano
sopra altra matera che amorosa, con ciò sia cosa che cotale modo
di parlare fosse dal principio trovato per dire d’amore. Onde,
con ciò sia cosa che a li poete sia conceduta maggiore licenza
di parlare che a li prosaici dittatori, e questi dicitori per
rima non siano altro che poete volgari, degno e ragionevole è
che a loro sia maggiore licenzia largita di parlare che a li
altri parlatori volgari; onde, se alcuna figura o colore
rettorico è conceduto a li poete, conceduto è a li rimatori.
Dunque, se noi vedemo che li poete hanno parlato a le cose
inanimate sì come se avessero senso e ragione, e fàttele parlare
insieme; e non solamente cose vere, ma cose non vere, cioè che
detto hanno, di cose le quali non sono, che parlano, e detto che
molti accidenti parlano, sì come se fossero sustanzie ed uomini;
degno è lo dicitore per rima di fare lo somigliante, ma non
sanza ragione alcuna, ma con ragione, la quale poi sia possibile
d’aprire per prosa. Che li poete abbiano così parlato come detto
è, appare per Virgilio; lo quale dice che Juno, cioè una dea
nemica de li Troiani, parlòe ad Eolo, segnore de li venti, quivi
nel primo de lo Eneida: Eole, namque tibi, e che
questo segnore le rispuose, quivi: Tuus, o regina, quid
optes explorare labor; mihi jussa capessere fas est. Per
questo medesimo poeta parla la cosa che non è animata a le cose
animate, nel terzo de lo Eneida, quivi: Dardanide
duri. Per Lucano parla la cosa animata a la cosa
inanimata, quivi: Multum, Roma, tamen, debes civilibus,
armis. Per Orazio parla l’uomo a la sua scienzia
medesima, sì come ad altra persona; e non solamente sono parole
d’Orazio, ma dìcele quasi recitando lo modo del buono Omero,
quivi ne la sua Poètria: Dic mihi, Musa, virum. Per
Ovidio parla Amore, sì come se fosse persona umana, ne lo
principio de lo libro c’ha nome Libro di Remedio d’Amore,
quivi: Bella mihi, video, bella parantur, ait. E per
questo puote essere manifesto a chi dubita in alcuna parte di
questo mio libello. E acciò che non ne pigli alcuna baldanza
persona grossa, dico che né li poete parlavano così sanza
ragione, né quelli che rìmano dèono parlare così, non avendo
alcuno ragionamento in loro di quello che dicono; però che
grande vergogna sarebbe a colui che rimasse cose sotto vesta di
figura o di colore rettorico, e poscia, domandato, non sapesse
denudare le sue parole da cotale vesta, in guisa che avessero
verace intendimento. E questo mio primo amico e io ne sapemo
bene di quelli che così rìmano stoltamente.
XXVI
Questa gentilissima donna, di cui ragionato è ne le precedenti
parole, venne in tanta grazia de le genti, che quando passava
per via, le persone correano per vedere lei; onde mirabile
letizia me ne giungea. E quando ella fosse presso d’alcuno,
tanta onestade giungea nel cuore di quello, che non ardia di
levare li occhi, né di rispondere a lo suo saluto; e di questo
molti, sì come esperti, mi potrebbero testimoniare a chi non lo
credesse. Ella coronata e vestita d’umilitade s’andava, nulla
gloria mostrando di ciò ch’ella vedea e udia. Diceano molti, poi
che passata era: «Questa non è femmina, anzi è uno de li
bellissimi angeli del cielo». E altri diceano: «Questa è una
maraviglia; che benedetto sia lo Segnore, che sì mirabilemente
sae adoperare!». Io dico ch’ella si mostrava sì gentile e sì
piena di tutti li piaceri, che quelli che la miravano
comprendeano in loro una dolcezza onesta e soave, tanto che
ridìcere non lo sapeano; né alcuno era lo quale potesse mirare
lei, che nel principio nol convenisse sospirare. Queste e più
mirabili cose da lei procedeano virtuosamente: onde io pensando
a ciò, volendo ripigliare lo stilo de la sua loda, propuosi di
dicere parole, ne le quali io dessi ad intendere de le sue
mirabili ed eccellenti operazioni; acciò che non pur coloro che
la poteano sensibilmente vedere, ma li altri sappiano di lei
quello che le parole ne possono fare intendere. Allora dissi
questo sonetto, lo quale comincia: Tanto gentile.
Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia, quand'ella altrui saluta, ch'ogne lingua deven tremando muta, e li occhi no l'ardiscon di guardare. Ella si va, sentendosi laudare, benignamente d'umiltà vestuta; e par che sia una cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare. Mòstrasi sì piacente a chi la mira, che dà per li occhi una dolcezza al core, che 'ntender no la può chi non la prova: e par che de la sua labbia si mova un spirito soave pien d'amore, che va dicendo a l'anima: «Sospira!»
Questo sonetto è sì piano ad intendere, per quello che narrato è dinanzi, che non abbisogna d’alcuna divisione; e però lassando lui, [XXVII] dico che questa mia donna venne in tanta grazia, che non solamente ella era onorata e laudata, ma per lei erano onorate e laudate molte. Ond’io, veggendo ciò e volendo manifestare a chi ciò non vedea, propuosi anche di dire parole ne le quali ciò fosse significato: e dissi allora questo altro sonetto, che comincia: Vede perfettamente ogne salute, lo quale narra di lei come la sua vertude adoperava ne l’altre, sì come appare ne la sua divisione.
Vede perfettamente ogne salute chi la mia donna tra le donne vede; quelle che vanno con lei son tenute di bella grazia a Dio render merzede. E sua bieltate è di tanta vertute, che nulla invidia a l'altre ne procede, anzi le face andar seco vestute di gentilezza d'amore e di fede. La vista sua fa ogne cosa umile; e non fa sola sé parer piacente, ma ciascuna per lei riceve onore. Ed è ne li atti suoi tanto gentile, che nessun la si può recare a mente, che non sospiri in dolcezza d'amore.
Questo sonetto ha tre parti: ne la prima dico tra che gente questa donna più mirabile parea; ne la seconda dico sì come era graziosa la sua compagnia; ne la terza dico di quelle cose che vertuosamente operava in altrui. La seconda parte comincia quivi: quelle che vanno; la terza quivi: E sua bieltate. Questa ultima parte si divide in tre: ne la prima dico quello che operava ne le donne, cio è per loro medesime; ne la seconda dico quello che operava in loro per altrui; ne la terza dico come non solamente ne le donne, ma in tutte le persone, e non solamente ne la sua presenzia, ma ricordandosi di lei, mirabilmente operava. La seconda comincia quivi: La vista sua; e la terza quivi: Ed è ne li atti.
XXVII
Appresso ciò, cominciai a pensare uno giorno sopra quello
che detto avea de la mia donna, cio è in questi due sonetti
precedenti; e veggendo nel mio pensero che io non avea detto di
quello che al presente tempo adoperava in me, pareami
defettivamente avere parlato. E però propuosi di dire parole ne
le quali io dicesse come me parea essere disposto a la sua
operazione, e come operava in me la sua vertude; e non credendo
potere ciò narrare in brevitade di sonetto, cominciai allora una
canzone, la quale comincia: Sì lungiamente.
Sì lungiamente m'ha tenuto Amore e costumato a la sua segnoria, che sì com'elli m'era forte in pria, così mi sta soave ora nel core. Però quando mi tolle sì 'l valore che li spiriti par che fuggan via, allor sente la frale anima mia tanta dolcezza, che 'l viso ne smore, poi prende Amore in me tanta vertute, che fa li miei sospiri gir parlando, ed escon for chiamando la donna mia, per darmi più salute. Questo m'avene ovunque ella mi vede, e sì è cosa umìl, che nol si crede.
XXVIII
Quomodo sedet sola civitas plena populo! facta est
quasi vidua domina gentium. Io era nel proponimento
ancora di questa canzone, e compiuta n’avea questa soprascritta
stanzia, quando lo signore de la giustizia chiamòe questa
gentilissima a gloriare sotto la insegna di quella regina
benedetta virgo Maria, lo cui nome fue in grandissima reverenzia
ne le parole di questa Beatrice beata. E avvegna che forse
piacerebbe a presente trattare alquanto de la sua partita da
noi, non è lo mio intendimento di trattarne qui per tre ragioni:
la prima è che ciò non è del presente proposito, se volemo
guardare nel proemio che precede questo libello; la seconda si è
che, posto che fosse del presente proposito, ancora non sarebbe
sufficiente la mia lingua a trattare, come si converrebbe, di
ciò; la terza si è che, posto che fosse l’uno e l’altro, non è
convenevole a me trattare di ciò, per quello che, trattando,
converrebbe essere me laudatore di me medesimo, la quale cosa è
al postutto biasimevole a chi lo fae: e però lascio cotale
trattato ad altro chiosatore. Tuttavia, però che molte volte lo
numero del nove ha preso luogo tra le parole dinanzi, onde pare
che sia non sanza ragione, e ne la sua partita cotale numero
pare che avesse molto luogo, convènesi di dire quindi alcuna
cosa, acciò che pare al proposito convenirsi. Onde prima dicerò
come ebbe luogo ne la sua partita, e poi n’assegnerò alcuna
ragione, per che questo numero fue a lei cotanto amico.
XXIX
Io dico che, secondo l’usanza d’Arabia, l’anima sua
nobilissima si partìo ne la prima ora del nono giorno del mese;
e secondo l’usanza di Siria, ella si partìo nel nono mese de
l’anno, però che lo primo mese è ivi Tisirin primo, lo quale a
noi è Ottobre; e secondo l’usanza nostra, ella si partìo in
quello anno de la nostra indizione, cioè de li anni Domini, in
cui lo perfetto numero nove volte era compiuto in quello
centinaio nel quale in questo mondo ella fue posta, ed ella fue
de li cristiani del terzodecimo centinaio. Perché questo numero
fosse in tanto amico di lei, questa potrebbe essere una ragione:
con ciò sia cosa che, secondo Tolomeo e secondo la cristiana
veritade, nove siano li cieli che si muovono, e secondo comune
opinione astrologa, li detti cieli adoperino qua giuso secondo
la loro abitudine insieme, questo numero fue amico di lei per
dare ad intendere che ne la sua generazione tutti e nove li
mobili cieli perfettissimamente s’aveano insieme. Questa è una
ragione di ciò; ma più sottilmente pensando, e secondo la
infallibile veritade, questo numero fue ella medesima; per
similitudine dico, e ciò intendo così. Lo numero del tre è la
radice del nove, però che sanza numero altro alcuno, per se
medesimo fa nove, sì come vedemo manifestamente che tre via tre
fa nove. Dunque se lo tre è fattore per sè medesimo del nove, e
lo fattore per sè medesimo de li miracoli è tre, cioè Padre e
Figlio e Spirito Santo, li quali sono tre e uno, questa donna
fue accompagnata da questo numero del nove a dare ad intendere
ch’ella era uno nove, cioè uno miracolo, la cui radice, cioè del
miracolo, è solamente la mirabile Trinitade. Forse ancora per
più sottile persona si vederebbe in ciò più sottile ragione; ma
questa è quella ch’io ne veggio, e che più mi piace.
XXX
Poi che fue partita da questo secolo, rimase tutta la
sopradetta cittade quasi vedova dispogliata da ogni dignitade;
onde io, ancora lagrimando in questa desolata cittade, scrissi a
li prìncipi de la terra alquanto de la sua condizione, pigliando
quello cominciamento di Geremia profeta che dice: Quomodo
sedet sola civitas. E questo dico, acciò che altri non si
maravigli perché io l’abbia allegato di sopra, quasi come
entrata de la nuova materia che appresso vene. E se alcuno
volesse me riprendere di ciò, ch’io non scrivo qui le parole che
sèguitano a quelle allegate, escùsomene, però che lo
intendimento mio non fue dal principio di scrivere altro che per
volgare: onde, con ciò sia cosa che le parole che sèguitano a
quelle che sono allegate siano tutte latine, sarebbe fuori del
mio intendimento se le scrivessi. E simile intenzione so ch’ebbe
questo mio primo amico, a cui io ciò scrivo, cioè ch’io li
scrivessi solamente volgare.
XXXI
Poi che li miei occhi ebbero per alquanto tempo
lagrimato, e tanto affaticati erano che non poteano disfogare la
mia trestizia, pensai di volere disfogarla con alquante parole
dolorose; e però propuosi di fare una canzone, ne la quale
piangendo ragionassi di lei, per cui tanto dolore era fatto
distruggitore de l’anima mia; e cominciai allora una canzone, la
quale comincia: Li occhi dolenti per pietà del core. E
acciò che questa canzone paia rimanere più vedova dopo lo suo
fine, la dividerò prima che io la scriva: e cotale modo terrò da
qui innanzi. Io dico che questa cattivella canzone ha tre parti:
la prima è proemio; ne la seconda ragiono di lei; ne la terza
parlo a la canzone pietosamente. La seconda parte comincia
quivi: Ita n’è Beatrice; la terza quivi: Pietosa
mia canzone. La prima parte si divide in tre: ne la prima
dico perché io mi muovo a dire; ne la seconda dico a cui io
voglio dire; ne la terza dico di cui io voglio dire. La seconda
comincia quivi: E perché me ricorda; la terza quivi: e
dicerò. Poscia quando dico: Ita n’è Beatrice,
ragiono di lei; e intorno a ciò foe due parti: prima dico la
cagione per che tolta ne fue; appresso dico come altri si piange
de la sua partita, e comincia questa parte quivi: Partìssi
de la sua. Questa parte si divide in tre: ne la prima
dico chi non la piange; ne la seconda dico chi la piange; ne la
terza dico de la mia condizione. La seconda comincia quivi: ma
ven trestizia e voglia; la terza quivi: Dànnomi
angoscia. Poscia quando dico: Pietosa mia canzone,
parlo a questa canzone, disegnandole a quali donne se ne vada, e
stèasi con loro.
Li occhi dolenti per pietà del core hanno di lagrimar sofferta pena, sì che per vinti son remasi omai. Ora, s'i' voglio sfogar lo dolore, che a poco a poco a la morte mi mena, convènemi parlar traendo guai. E perché me ricorda ch'io parlai de la mia donna, mentre che vivia, donne gentili, volontier con vui, non vòi parlare altrui, se non a cor gentil che in donna sia; e dicerò di lei piangendo, pui che si n'è gita in ciel subitamente, e ha lasciato Amor meco dolente. Ita n'è Beatrice in l'alto cielo, nel reame ove li angeli hanno pace, e sta con loro, e voi, donne, ha lassate: no la ci tolse qualità di gelo né di calore, come l'altre face, ma solo fue sua gran benignitate; ché luce de la sua umilitate passò li cieli con tanta vertute, che fé maravigliar l'etterno sire, sì che dolce disire lo giunse di chiamar tanta salute; e félla di qua giù a sé venire, perché vedea ch'esta vita noiosa non era degna di sì gentil cosa. Partìssi de la sua bella persona, piena di grazia, l'anima gentile, ed èssi gloriosa in loco degno. Chi no la piange, quando ne ragiona, core ha di pietra sì malvagio e vile, ch'entrar no 'i puote spirito benegno. Non è di cor villan sì alto ingegno, che possa imaginar di lei alquanto, e però no li ven di pianger doglia; ma ven trestizia e voglia di sospirare e di morir di pianto, e d'onne consolar l'anima spoglia, chi vede nel pensero alcuna volta quale ella fue, e com'ella n'è tolta. Dànnomi angoscia li sospiri forte, quando 'l pensero ne la mente grave mi reca quella che m'ha 'l cor diviso; e spesse fiate pensando a la morte, vènemene un disio tanto soave, che mi tramuta lo color nel viso. E quando 'l maginar mi ven ben fiso, giùgnemi tanta pena d'ogne parte, ch'io mi riscuoto per dolor ch'i' sento; e sì fatto divento, che da le genti vergogna mi parte. Poscia piangendo, sol nel mio lamento chiamo Beatrice, e dico: - Or se' tu morta? -; e mentre ch'io la chiamo, me conforta. Pianger di doglia e sospirar d'angoscia mi strugge 'l core ovunque sol mi trovo, sì che ne 'ncrescerebbe a chi m'audesse: e quale è stata la mia vita, poscia che la mia donna andò nel secol novo, lingua non è che dicer lo sapesse. E però, donne mie, pur ch'io volesse, non vi saprei io dir ben quel ch'io sono, sì mi fa travagliar l'acerba vita; la quale è sì 'nvilita, che ogn'om par che mi dica: - Io t'abbandono -, veggendo la mia labbia tramortita. Ma qual ch'io sia, la mia donna il si vede, ed io ne spero ancor da lei merzede. Pietosa mia canzone, or va piangendo, e ritruova le donne e le donzelle, a cui le tue sorelle erano usate di portar letizia; e tu, che se' figliuola di trestizia, vatten disconsolata a star con elle.
XXXII
Poi che detta fue questa canzone, sì venne a me uno, lo
quale, secondo li gradi de l’amistade, è amico a me
immediatamente dopo lo primo; e questi fue tanto distretto di
sanguinitade con questa gloriosa, che nullo più presso l’era. E
poi che fue meco a ragionare, mi pregòe ch’io li dovesse dire
alcuna cosa per una donna che s’era morta; e simulava sue
parole, acciò che paresse che dicesse d’un’altra, la quale morta
era certamente. Onde io accorgendomi che questi dicea solamente
per questa benedetta, sì li dissi di fare ciò che mi domandava
lo suo prego. Onde poi pensando a ciò, propuosi di fare uno
sonetto nel quale mi lamentasse alquanto, e di darlo a questo
mio amico, acciò che paresse che per lui l’avessi fatto; e dissi
allora questo sonetto, che comincia: Venite a ‘ntender li
sospiri miei. Lo quale ha due parti: ne la prima, chiamo
li fedeli d’Amore che m’ intendano; ne la seconda, narro de la
mia misera condizione. La seconda comincia quivi: li quai
disconsolati.
Venite a 'ntender li sospiri miei, oi cor gentili, chè pietà 'l disia: li quai disconsolati vanno via, e s'e' non fosser, di dolor morrei; però che gli occhi mi sarebber rei, molte fiate più ch'io non vorria, lasso! di pianger sì la donna mia, che sfogasser lo cor, piangendo lei. Voi udirete lor chiamar sovente la mia donna gentil, che si n'è gita al secol degno de la sua vertute; e dispregiar talora questa vita in persona de l'anima dolente abbandonata de la sua salute.
XXXIII
Poi che detto èi questo sonetto, pensandomi chi questi
era a cui lo intendea dare quasi come per lui fatto, vidi che
povero mi parea lo servigio e nudo a così distretta persona di
questa gloriosa. E però anzi ch’io li dessi questo soprascritto
sonetto, sì dissi due stanzie d’una canzone, l’una per costui
veracemente, e l’altra per me, avvegna che paia l’una e l’altra
per una persona detta, a chi non guarda sottilmente; ma chi
sottilmente le mira, vede bene che diverse persone parlano,
acciò che l’una non chiama sua donna costei, e l’altra sì, come
appare manifestamente. Questa canzone e questo soprascritto
sonetto li diedi, dicendo io lui che per lui solo fatto l’avea.
La canzone comincia: Quantunque volte, e ha due parti:
ne l’una, cioè ne la prima stanzia, si lamenta questo mio caro e
distretto a lei; ne la seconda mi lamento io, cioè ne l’altra
stanzia si comincia: E’ si raccoglie ne li miei. E
così appare che in questa canzone si lamentano due persone,
l’una de le quali si lamenta come frate, l’altra come servo.
Quantunque volte, lasso! , mi rimembra ch'io non debbo giammai veder la donna ond'io vo sì dolente, tanto dolore intorno 'l cor m'assembra la dolorosa mente, ch'io dico: - Anima mia, chè non ten vai? chè li tormenti che tu porterai nel secol, che t'è già tanto noio, mi fan pensoso di paura forte -. Ond'io chiamo la Morte, come soave e dolce mio riposo; e dico: - Vieni a me - con tanto amore, che sono astioso di chiunque more. E si raccoglie ne li miei sospiri un sòno di pietate, che va chiamando Morte tuttavia: a lei si volser tutti i miei disiri, quando la donna mia fu giunta da la sua crudelitate; perché 'l piacere de la sua bieltate, partendo sé da la nostra veduta, divenne spirital bellezza grande, che per lo cielo spande luce d'amor, che li angeli saluta e lo intelletto loro alto, sottile face maravigliar, sì v'è gentile.
XXXIV
In quello giorno nel quale si compiea l’anno che questa
donna era fatta de li cittadini di vita eterna, io mi sedea in
parte ne la quale, ricordandomi di lei, disegnava uno angelo
sopra certe tavolette; e mentre io lo disegnava, volsi li occhi,
e vidi lungo me uomini a li quali si convenia di fare onore. E
riguardavano quello che io facea; e secondo che me fu detto poi,
elli erano stati già alquanto anzi che io me ne accorgesse.
Quando li vidi, mi levai, e salutando loro dissi: «Altri era
testé meco, però pensava». Onde partiti costoro, ritornàimi a la
mia opera, cioè del disegnare figure d’angeli: e facendo ciò, mi
venne uno pensero di dire parole, quasi per annovale, e scrivere
a costoro li quali erano venuti a me; e dissi allora questo
sonetto, lo quale comincia: Era venuta. Lo quale ha
due cominciamenti, e però lo dividerò secondo l’uno e secondo
l’altro. Dico che secondo lo primo, questo sonetto ha tre parti:
ne la prima, dico che questa donna era già ne la mia memoria; ne
la seconda, dico quello che Amore però mi facea; ne la terza,
dico de gli effetti d’Amore. La seconda comincia quivi: Amor
che; la terza quivi: Piangendo uscivan for.
Questa parte si divide in due: ne l’una dico che tutti li miei
sospiri uscivano parlando; ne la seconda dico che alquanti
diceano certe parole diverse da gli altri. La seconda comincia
quivi: Ma quei. Per questo medesimo modo si divide
secondo l’altro cominciamento, salvo che ne la prima parte dico
quando questa donna era così venuta ne la mia memoria, e ciò non
dico ne l’altro.
Primo cominciamento
Era venuta ne la mente mia la gentil donna che per suo valore fu posta da l'altissimo Signore nel ciel de l'umiltate, ov'è Maria.
Secondo cominciamento
Era venuta ne la mente mia quella donna gentil cui piange Amore. Entro 'n quel punto che lo suo valore vi trasse a riguardar quel ch'eo facia. Amor che ne la mente la sentia, s'era svegliato nel destrutto core, e diceva a' sospiri: «Andate fore»; per che ciascun dolente si partia. Piangendo uscivan for de lo mio petto con una voce che sovente mena le lagrime dogliose a li occhi tristi. Ma quei che n'uscian for con maggior pena, venian dicendo: «Oi nobile intelletto, oggi fa l'anno che nel ciel salisti».
XXXV
Poi per alquanto tempo, con ciò fosse cosa che io fosse
in parte ne la quale mi ricordava del passato tempo, molto stava
pensoso, e con dolorosi pensamenti tanto che mi faceano parere
de fore una vista di terribile sbigottimento. Onde io,
accorgendomi del mio travagliare, levai li occhi per vedere se
altri mi vedesse. Allora vidi una gentile donna giovane e bella
molto, la quale da una finestra mi riguardava sì pietosamente,
quanto a la vista, che tutta la pietà parea in lei accolta.
Onde, con ciò sia cosa che quando li miseri veggiono di loro
compassione altrui, più tosto si muovono a lagrimare, quasi come
di se stessi avendo pietade, io senti’ allora cominciare li miei
occhi a volere piangere; e però, temendo di non mostrare la mia
vile vita, mi partio dinanzi da li occhi di questa gentile; e
dicea poi fra me medesimo: «E’ non puote essere che con quella
pietosa donna non sia nobilissimo amore». E però propuosi di
dire uno sonetto, ne lo quale io parlasse a lei, e conchiudesse
in esso tutto ciò che narrato è in questa ragione. E però che
per questa ragione è assai manifesto, sì nollo dividerò. Lo
sonetto comincia: Videro li occhi miei.
Videro li occhi miei quanta pietate era apparita in la vostra figura, quando guardaste li atti e la statura ch'io faccio per dolor molte fiate. Allor m'accorsi che voi pensavate la qualità de la mia vita oscura, sì che mi giunse ne lo cor paura di dimostrar con li occhi mia viltate. E tòlsimi dinanzi a voi, sentendo che si movean le lagrime dal core, ch'era sommosso da la vostra vista. Io dicea poscia ne l'anima trista: «Ben è con quella donna quello Amore lo qual mi face andar così piangendo».
XXXVI
Avvenne poi che là ovunque questa donna mi vedea, sì si
facea d’una vista pietosa e d’un colore palido quasi come
d’amore; onde molte fiate mi ricordava de la mia nobilissima
donna, che di simile colore si mostrava tuttavia. E certo molte
volte non potendo lagrimare né disfogare la mia trestizia, io
andava per vedere questa pietosa donna, la quale parea che
tirasse le lagrime fuori de li miei occhi per la sua vista. E
però mi venne volontade di dire anche parole, parlando a lei; e
dissi questo sonetto, lo quale comincia: Color d’amore;
ed è piano sanza dividerlo, per la sua precedente ragione.
Color d'amore e di pietà sembianti non preser mai così mirabilmente viso di donna, per veder sovente occhi gentili o dolorosi pianti, come lo vostro, qualora davanti vedètevi la mia labbia dolente; sì che per voi mi ven cosa a la mente, ch'io temo forte no lo cor si schianti. Eo non posso tener li occhi distrutti che non reguardin voi spesse fiate, per desiderio di pianger ch'elli hanno: e voi crescete sì lor volontate, che de la voglia si consuman tutti; ma lagrimar dinanzi a voi non sanno.
XXXVII
Io venni a tanto per la vista di questa donna, che li
miei occhi si cominciaro a dilettare troppo di vederla; onde
molte volte me ne crucciava nel mio cuore, ed avèamene per vile
assai. Onde più volte bestemmiava la vanitade de li occhi miei,
e dicea loro nel mio pensero: «Or voi solavate fare piangere chi
vedea la vostra dolorosa condizione, ed ora pare che vogliate
dimenticarlo per questa donna che vi mira; che non mira voi, se
non in quanto le pesa de la gloriosa donna di cui piangere
solete; ma quanto potete fate, ché io la vi pur rimembrerò molto
spesso, maladetti occhi, ché mai, se non dopo la morte, non
dovrebbero le vostre lagrime avere restate». E quando così avea
detto fra me medesimo a li miei occhi, e li sospiri m’assalivano
grandissimi e angosciosi. E acciò che questa battaglia che io
avea meco non rimanesse saputa pur dal misero che la sentia,
propuosi di fare un sonetto, e di comprendere in ello questa
orribile condizione. E dissi questo sonetto, lo quale comincia:
L’amaro lagrimar. Ed hae due parti: ne la prima, parlo
a li occhi miei sì come parlava lo mio cuore in me medesimo; ne
la seconda, rimuovo alcuna dubitazione, manifestando chi è che
così parla; e comincia questa parte quivi: Così dice.
Potrebbe bene ancora ricevere più divisioni, ma sariano indarno,
però che è manifesto per la precedente ragione.
«L'amaro lagrimar che voi faceste, oi occhi miei, così lunga stagione, facea lagrimar l'altre persone de la pietate, come voi vedeste. Ora mi par che voi l'obliereste, s'io fosse dal mio lato sì fellone ch'i' non ven disturbasse ogne cagione, membrandovi colei cui voi piangeste. La vostra vanità mi fa pensare, e spavèntami sì, ch'io temo forte del viso d'una donna che vi mira. Voi non dovreste mai, se non per morte, la vostra donna, ch'è morta, obliare». Così dice 'l meo core, e poi sospira.
XXXVIII
Ricovròmi la vista di quella donna in sì nuova
condizione, che molte volte ne pensava sì come di persona che
troppo mi piacesse; e pensava di lei così: «Questa è una donna
gentile, bella, giovane e savia, e apparita forse per volontade
d’Amore, acciò che la mia vita si riposi». E molte volte pensava
più amorosamente, tanto che lo cuore consentiva in lui, cioè nel
suo ragionare. E quando io avea consentito ciò, e io mi
ripensava sì come da la ragione mosso, e dicea fra me medesimo:
«Deo, che pensero è questo, che in così vile modo vuole
consolare me e non mi lascia quasi altro pensare?». Poi si
rilevava un altro pensero, e dicea a me: «Or tu se’ stato in
tanta tribulazione, perché non vuoli tu ritrarre te da tanta
amaritudine? Tu vedi che questo è uno spiramento d’Amore, che ne
reca li disiri d’amore dinanzi, ed è mosso da così gentil parte,
com’è quella de li occhi de la donna che tanto pietosa ci s’hae
mostrata». Onde io avendo così più volte combattuto in me
medesimo, ancora ne volli dire alquante parole; e però che la
battaglia de’ pensieri vinceano coloro che per lei parlavano, mi
parve che si convenisse di parlare a lei; e dissi questo
sonetto, lo quale comincia: Gentil pensero; e dico
‘gentile’ in quanto ragionava di gentile donna, ché per altro
era vilissimo.
In questo sonetto fo due parti di me, secondo che li miei pensieri erano divisi. L’una parte chiamo ‘cuore’, cioè l’appetito; l’altra chiamo anima, cioè la ragione; e dico come l’uno dice con l’altro. E che degno sia di chiamare l’appetito cuore, e la ragione anima, assai è manifesto a coloro a cui mi piace che ciò sia aperto. Vero è che nel precedente sonetto io fo la parte del cuore contra quella de li occhi, e ciò pare contrario di quello che io dico nel presente; e però dico che ivi lo cuore anche intendo per lo appetito, però che maggiore desiderio era lo mio ancora di ricordarmi de la gentilissima donna mia, che di vedere costei, avvegna che alcuno appetito n’avessi già, ma leggero parea: onde appare che l’uno detto non è contrario a l’altro.
Questo sonetto ha tre parti: ne la prima, comincio a dire a questa donna come lo mio desiderio si volge tutto verso lei; ne la seconda, dico come l’anima, cioè la ragione, dice al cuore, cioè a lo appetito; ne la terza dico come le risponde. La seconda parte comincia quivi: L’anima dice; la terza quivi: Ei le risponde.
Gentil pensero che parla di vui, sen vene a dimorar meco sovente, e ragiona d'amor sì dolcemente, che face consentir lo core in lui. L'anima dice al cor: «Chi è costui, che vene a consolar la nostra mente ed è la sua vertù tanto possente, ch'altro penser non lascia star con nui?» Ei le risponde: «Oi anima pensosa, questi è uno spiritel novo d'amore, che reca innanzi me li suoi desiri; e la sua vita, e tutto 'l suo valore, mosse de li occhi di quella pietosa che si turbava de' nostri martìri».
XXXIX
Contra questo avversario de la ragione si levoe un die,
quasi ne l’ora de la nona, una forte imaginazione in me; che mi
parve vedere questa gloriosa Beatrice con quelle vestimenta
sanguigne co le quali apparve prima a li occhi miei; e pareami
giovane in simile etade in quale io prima la vidi. Allora
cominciai a pensare di lei. E ricordandomi di lei secondo
l’ordine del tempo passato, lo mio cuore cominciò dolorosamente
a pentère de lo desiderio a cui sì vilmente s’avea lasciato
possedere alquanti die contra la costanzia de la ragione; e
discacciato questo cotale malvagio desiderio, sì si rivolsero
tutti li miei pensamenti a la loro gentilissima Beatrice. E dico
che d’allora innanzi cominciai a pensare di lei sì con tutto lo
vergognoso cuore, che li sospiri manifestavano ciò molte volte;
però che tutti quasi diceano nel loro uscire quello che nel
cuore si ragionava, cioè lo nome di quella gentilissima, e come
si partìo da noi. E molte volte avvenia che tanto dolore avea in
sé alcuno pensero, ch’io dimenticava lui e là dov’io era. Per
questo raccendimento de’ sospiri si raccese lo sollenato
lagrimare, in guisa che li miei occhi pareano due cose che
desiderassero pur di piangere; e spesso avvenia che per lo lungo
continuare del pianto, dintorno loro si facea uno colore
purpureo, lo quale suole apparire per alcuno martirio che altri
riceva. Onde appare che de la loro vanitade fuoro degnamente
guiderdonati; sì che d’allora innanzi non potero mirare persona
che li guardasse sì che loro potesse trarre a simile
intendimento. Onde io, volendo che cotale desiderio malvagio e
vana tentazione paresse distrutto, sì che alcuno dubbio non
potessero indùcere le rimate parole ch’io avea dette innanzi,
propuosi di fare uno sonetto, ne lo quale io comprendesse la
sentenza di questa ragione. E dissi allora: Lasso! per
forza di molti sospiri; e dissi ‘lasso’ in quanto mi
vergognava di ciò, che li miei occhi aveano così vaneggiato.
Questo sonetto non divido, però che assai lo manifesta la sua ragione.
Lasso! per forza di molti sospiri che nascon de' penser che son nel core, li occhi son vinti, e non hanno valore di riguardar persona che li miri. E fatti son che paion due disiri di lagrimare e di mostrar dolore, e spesse volte piangon sì ch'Amore li 'ncerchia di corona di martìri. Questi penseri, e li sospir ch'eo gitto, diventan ne lo cor sì angosciosi, ch'Amor vi tramortisce, sì glien dole; però ch'elli hanno in lor, li dolorosi, quel dolce nome di madonna scritto, e de la morte sua molte parole.
XL
Dopo questa tribulazione avvenne, in quello tempo che molta
gente va per vedere quella imagine benedetta la quale Jesu
Cristo lasciò a noi per esemplo de la sua bellissima figura, la
quale vede la mia donna gloriosamente, che alquanti peregrini
passavano per una via la quale è quasi mezzo de la cittade ove
nacque e vivette e morìo la gentilissima donna. Li quali
peregrini andavano, secondo che mi parve, molto pensosi; ond’io
pensando a loro, dissi fra me medesimo: «Questi peregrini mi
paiono di lontana parte, e non credo che anche udissero parlare
di questa donna, e non ne sanno neente; anzi li loro penseri
sono d’altre cose che di queste qui, ché forse pensano de li
loro amici lontani, li quali noi non conoscemo». Poi dicea fra
me medesimo: «Io so che s’elli fossero di propinquo paese, in
alcuna vista parrebbero turbati passando per lo mezzo de la
dolorosa cittade». Poi dicea fra me medesimo: «Se io li potesse
tenere alquanto, io li pur farei piangere anzi ch’elli uscissero
di questa cittade, però che io direi parole le quali farebbero
piangere chiunque le intendesse». Onde, passati costoro da la
mia veduta, propuosi di fare uno sonetto ne lo quale io
manifestasse ciò che io avea detto fra me medesimo; e acciò che
più paresse pietoso, propuosi di dire come se io avesse parlato
a loro; e dissi questo sonetto, lo quale comincia: Deh!
peregrini che pensosi andate. E dissi ‘peregrini’ secondo
la larga significazione del vocabulo; ché peregrini si possono
intendere in due modi, in uno largo e in uno stretto: in largo,
in quanto è peregrino chiunque è fuori de la sua patria; in modo
stretto, non s’intende peregrino se non chi va verso la casa di
sa’ Iacopo o riede. E però è da sapere che in tre modi si
chiamano propriamente le genti che vanno al servigio de
l’Altissimo: chiamansi palmieri, in quanto vanno
oltremare, là onde molte volte recano la palma; chiamansi peregrini,
in quanto vanno a la casa di Galizia, però che la sepultura di
sa’ Iacopo fue più lontana de la sua patria che d’alcuno altro
apostolo; chiamansi romei, in quanto vanno a Roma, là
ove questi cu’ io chiamo peregrini andavano.
Questo sonetto non divido, però che assai lo manifesta la sua ragione.
Deh! peregrini che pensosi andate, forse di cosa che non v'è presente, venite voi da sì lontana gente, com'a la vista voi ne dimostrate, che non piangete quando voi passate per lo suo mezzo la città dolente, come quelle persone che neente par che 'ntendesser la sua gravitate. Se voi restaste per volerlo audire, certo lo cor de' sospiri mi dice che lagrimando n'uscireste pui. Ell'ha perduta la sua beatrice; e le parole ch'om di lei pò dire hanno vertù di far piangere altrui.
XLI
Poi mandaro due donne gentili a me, pregando che io mandasse
loro di queste mie parole rimate; onde io, pensando la loro
nobilitade, propuosi di mandare loro e di fare una cosa nuova,
la quale io mandasse a loro con esse, acciò che più
onorevolemente adempiesse li loro prieghi. E dissi allora uno
sonetto lo quale narra del mio stato, e mandàlo a loro co lo
precedente sonetto accompagnato, e con un altro che comincia: Venite
a intender.
Lo sonetto lo quale io feci allora, comincia: Oltre la spera; lo quale ha in sé cinque parti. Ne la prima dico là ove va lo mio pensero, nominandolo per lo nome d’alcuno suo effetto. Ne la seconda dico perché va là suso, cioè chi lo fa così andare. Ne la terza dico quello che vide, cioè una donna onorata là suso; e chiamolo allora ‘spirito peregrino’, acciò che spiritualmente va là suso, e sì come peregrino lo quale è fuori de la sua patria, vi stae. Ne la quarta dico come elli la vede tale, cioè in tale qualitade, che io non lo posso intendere, cioè a dire che lo mio pensero sale ne la qualitade di costei in grado che lo mio intelletto no lo puote comprendere; con ciò sia cosa che lo nostro intelletto s’abbia a quelle benedette anime, sì come l’occhio debole a lo sole: e ciò dice lo Filosofo nel secondo de la Metafisica. Ne la quinta dico che, avvegna che io non possa intendere là ove lo pensero mi trae, cioè a la sua mirabile qualitade, almeno intendo questo, cioè che tutto è lo cotale pensare de la mia donna, però ch’io sento lo suo nome spesso nel mio pensero: e nel fine di questa quinta parte dico ‘donne mie care’, a dare ad intendere che sono donne coloro a cui io parlo. La seconda parte comincia quivi: intelligenza nova; la terza quivi: Quand’elli è giunto; la quarta quivi: Vedela tal; la quinta quivi: So io che parla. Potrèbbesi più sottilmente ancora dividere, e più sottilmente fare intendere; ma puòtesi passare con questa divisa, e però non m’intrametto di più dividerlo.
Oltre la sfera che più larga gira, passa 'l sospiro ch'esce del mio core: intelligenza nova, che l'Amore piangendo mette in lui, pur sù lo tira. Quand'elli è giunto là dove disira, vede una donna che riceve onore, e luce sì che per lo suo splendore lo peregrino spirito la mira. Vedela tal, che quando 'l mi ridice, io no lo intendo, sì parla sottile al cor dolente che lo fa parlare. So io che parla di quella gentile, però che spesso ricorda Beatrice, sì ch'io lo 'ntendo ben, donne mie care.
XLII
Appresso questo sonetto, apparve a me una mirabile visione, ne
la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di
questa benedetta, infino a tanto che io potesse più degnamente
trattare di lei. E di venire a ciò io studio quanto posso, sì
com’ella sae veracemente. Sì che, se piacere sarà di colui a cui
tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io
spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna. E
poi piaccia a colui che è sire de la cortesia, che la mia anima
se ne possa gire a vedere la gloria de la sua donna: cioè di
quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la
faccia di colui qui est per omnia secula benedictus.
THE FLORENCE OF THE 'FEDELI D'AMORE'
17. Map 1D,
Parrini XIII, Tassinari
XIII. In Via del Corso, 6, on your left, where the
Portinari palace stood. Oral reading 24♫
Folco Portinari, Beatrice's banker father,
founded the hospital of 9. Santa Maria Nuova,
while her nurse, Monna Tessa, founded the adjacent Order of the
Oblate, who nursed the sick and dying there, while the
Misericordia by the Duomo carried the sick and the dying and
buried the dead, Michelangelo showing himself as such a
Misericordia worker in the Pietà, now in the Opera del Duomo but
formerly in the Cathedral.
Dante earlier had celebrated the family in his Vita nova.
This plaque describes Beatrice's appearance to him in Purgatorio XXX, in the colours
that would become Italy's national flag at the Risorgimento.
Just before the plaque is the entrance to the Palazzo
Portinari-Salviati where you can have a coffee and admire its
later embellishments. This is where Dante in Vita nova
II, first saw Beatrice at her home at the May day celebration,
where she is eight and is dressed in scarlet, and he is nine
years old.
PORTINARI
SOVRA CANDIDO VEL , CINTA D'ULIVA,
DONNA M'APPARVE SOTTO VERDE MANTO
VESTITA DEL COLOR DI FIAMMA VIVA.
Over her
snow-white veil with olive cinct
Appeared a
lady under a green mantle
Vested in
colour of the living flame.
PURG XXX.31-33
PIAZZA SANTA
FELICITA'
39. Cross the 38. Ponte
Vecchio into the Oltrarno (the other
side of the Arno River, like Rome's other side of the
Tiber River, the Tevere, as "Trastevere"), you
will see on your left hand side the little piazza of Santa
Felicità with the column bound in iron at its centre.
Giovanni Villani tells us, Cronica VII.lxxxix,
that on St John's Day, 24 June 1283, when Dante was 18, a
thousand young Florentines gathered there, dressed in
white, to celebrate the God of Love, Amore,
In the year 1283, in the month
of June for the Feast of St John’s Day, the city of
Florence being in a good state of happiness, and
tranquil and at peace, and of use for the merchants
and craftspeople, largely because of the Guelfs who
ruled the land, they made in the area of Santa
Felicità in the Oltrarno, where were the head and
beginner of that house of de’ Rossi with their
neighbours, a company and brigata of a thousand men
and more, all dressed in white clothing with a lord
called Amore. . . . This court lasted for two months
and was the most noble and famous that ever was in the
city of Florence and in Tuscany. . . . this lasted
until 1284 when the conflict began between the people
and those with power, between the White and the Black
parties.
That
Amore is to be found in Brunetto
Latino's Tesoretto,
in Dante Alighieri's Vita nova III, where he sees Beatrice when he is eighteen,
and she is dressed in white, and he speaks of the
'fedeli d'Amore', in the Francesco da
Barberino's Documenti d'Amore, and in the Canzoniere
Palatino. Francesco da Barberino was a fellow
student with Dante
Alighieri and Guido
Cavalcanti of Brunetto
Latino. Dante presents a copy of the Vita
nova to his teacher one Easter day with the
accompanying sonnet, "Messer Brunetto, questa pulzeletta",
Biblioteca Medicea
Laurenziana, Strozzi 146, fol. 42r, Brunetto Latino,
Column in Piazza Santa Felicità, Florence
Tesoretto, Miniaturist, Francesco da Barberino
Biblioteca Apostolica
Vaticana, Francesco da Barberino, Documenti d'Amore
THE BADIA
21. The Badia Map 1D,
Parrini XXIV, Tassinari
XXIV. In Via del Proconsolo, BADIA, 17 rosso. Oral reading
21 ♫
VGO DI TOSCANA
CIASCVN CHE DELLA BELLA INSEGNA PORTA
DEL GRAN BARONE, IL CVI NOME E'L CVI PREGIO
LA FESTA DI TOMMASO RICONFORTA
DA ESSO EBBE MILIZIA E PRIVILEGIO.
Each one that
bears the beautiful escutcheon
Of the great
barn whose renown and name
The festival
of Thomas keepeth fresh
Knighthood
and privilege from him received.
PAR XVI.137-139
Willa,
the mother of Ugo of Tuscany, 951-1001, founded this Abbey in
Florence.
Catasto dell
Badia
Bigallo
Biadaiuolo
Umiltà
Duomo Oggi
Enter the door up the steps. The church
is now much altered from what it was in Dante's day. There as a boy Dante would have
heard the bells rung and the monks sing at Terce and Nones,
at nine o'clock and then at three o'clock, at the third and
ninth hours of daylight. Their other Offices of Prayers
would have been Lauds, Matins, Sext, Vespers and Compline,
as well as Mass. Their singing would have been in Gregorian
chant. When we did the Music
of the Commedia in concerts we used the
manuscripts of Dante's epoch from Santa Reparata and
elsewhere. Dante describes seeing Beatrice here in Vita
nova V. The city dignatories still meet here with the
Gonfalone of Justice to honour Ugo of Tuscany and celebrate
Mass every 21 December, the feastday of St Thomas the
Apostle. Boccaccio
would lecture on Dante's Commedia in its chapel of St
Stephen and Filipino would paint this painting of Saint
Bernard's vision of the Virgin, telling him what to write in
his commentary to Solomon's Song of Songs, which Dante evoked
in Paradiso XXXIII.
LA VITA NUOVA
PARADIGMI DI PELLEGRINAGGIO1
L'ermeneutica
della
Vita Nuova può essere cifrata mediante
l’archeologia del suo testo,4 vale a dire
tramite la sua intertestualità con un testo anteriore che
a sua volta descrive una geografia aliena e «peregrina»,
estranea a quella di Dante; l'una la geografia della
Palestina in Asia, l'altra la
geografia del Sinai in Africa. E, tuttavia, anche
rappresenta l'ambito geografico della natia Firenze, di
Roma, e Compostela, in Europa. Servendosi dei paradigmi
dell'Esodo e di Emmaus come di un palinsesto, Dante crea
sul Vecchio e Nuovo Testamento e dà forma nuova
all'ebraico, al greco e latino della Bibbia
trasfondendoli nel volgare fiorentino. Il contesto
culturale potremmo dire, inoltre, spiega sia il testo
sia il suo metodo, decodificandone la crittografia. Il
presente saggio tenterà di dipanare quegli aspetti del
suo enigma connessi con il pellegrinaggio ed i suoi due
paradigmi, il paradigma dell’Esodo in Egitto (in
Africa) e il paradigma di Emmaus in Palestina (in Asia),
fissando lo sguardo sulla Mappa mundi ‘T-O’
medievale. Il
Libro del Verbo (Torah, Vangelo, Corano) è il Libro del
Mondo creato da Dio.
Il
secolo XIII è il secolo del «dolce stil nuovo», il secolo
dello «stile Gotico», che prendendo a prestito motivi dai
Saraceni osservati in Spagna, in Sicilia, e nel Regno di
Gerusalemme (perduto nel
1291 con la caduta di Acri) - dove la cultura cristiana
con i suoi crociati e pellegrinaggi
incontrò il ricco pluralismo degli altri popoli del
Libro - rese ultracristiano tale materiale
ultracivilizzato in antitesi al romanico, che si
preferiva interpretare ora come Antico, che fosse romano
o giudaico, ellenico o ebraico. Erwin Panofsky ha
mostrato come quest’epoca si servisse di questi due
stili in una lingua codificata, che trasmetteva Antico e
Nuovo insieme. Quest'uno ad adempimento dell'altro, e
non per abolirlo.5 Erich Auerbach e Frederic
Jameson hanno dimostrato come la teologia medievale
coniugasse disparati modi di leggere i testi in una
complementarietà, una ricca coesistenza che continuò nel
tempo fino a che progressivamente il sistema divenne
troppo difficile da controllare, sovraccarico e, in
tempi più moderni, contraddittorio per i lettori.6
Al
pellegrinaggio, visto dai teologi - e tra essi Filone
Giudeo - come paideia,
come percorso di formazione è associata la stessa Vita
Nuova. Tradizionalmente si ritiene inoltre che Dante
fece dono dell’opera a Brunetto Latino, suo maestro,
accompagnandola con il sonetto in cui parla del suo testo
come testo bifronte.7 Tale testo funziona come
epistemologia e dell’autore e del lettore. Ad entrambi
viene chiesto di decifrarne il codice e risolverne
l'enigma.8
Molte sono, lungo i secoli antecedenti e
susseguenti, le opere ad esso connesse: le Confessiones (Le
confessioni) di Agostino, il De Consolatione
Philosophiae (La consolazione della
filosofia) di Boezio, lo Speculum
Stultorum di Nigel Wireker, l'Encomium moriae
(Elogio della follia) di Erasmo, l'Utopia di
Thomas More, il Pilgrim's Progress (Il viaggio del
pellegrino) di John Bunyan, A Portrait of the
Artist as a Young Men (Ritratto dell'artista da
giovane) di James Joyce. Queste opere utilizzano personae
dell'autore e specula, maschere e specchi,
sono dottamente facete e infantilmente arcane. Sono libri
educativi e sulla formazione che si imperniano sul
fulcro delle conversioni («Tolle, lege, tolle,
lege»), e che nella loro natura dialettica sono
permeati da significati uguali e opposti.
Il
secolo XIII è il secolo di Aristotele - autore reso
ultraortodosso da Tommaso d'Aquino dopo l’amaro, iniziale
rifiuto dei suoi scritti ritenuti eretici, e che Brunetto
Latino insegnò a Dante - le cui opere furono parimenti
prese a prestito dagli arabi, che diversamente dai
cristiani preservarono i testi greci. Quello cui
assistiamo qui è una svolta, un mutamento di paradigma di
grande rilevanza per
la cultura occidentale, quantunque censurato e mascherato.9
Il secolo XIII è il secolo delle università, e
tutti questi testi insieme, testi filosofici e teologici,
greco-romani e giudaico-cristiani, furono fondamentali per
l'aula universitaria medievale e per quelle istituzioni
educative formatesi nelle scuole giuridiche e nelle
cancellerie in quelle città che mancavano delle
università. Brunetto Latino insegnava ai suoi studenti, ad
Arras e a Firenze, ricorrendo ai testi acquisiti nella
Spagna quasi saracena. Tra i suoi discepoli il giovane
Dante Alighieri e Guido Cavalcanti.10 Latino
e Dante, maestro e discepolo, trasmisero quel nuovo
sapere, inizialmente sospetto e controverso, ambedue
riconciliando in una dialettica modello greco-arabo e
modello giudaico-cristiano. La volontà di accogliere una
duplicità di pensiero favorì ulteriormente l'unificazione
di Vecchio e Nuovo Testamento come giustificazione
dell'analoga giustapposizione di filosofia greco-romana, e
teologia giudaico-cristiana. Beryl Smalley ha discorso di
questo aspetto dello studio biblico medievale e Gabriel
Astrik ne ha attestato la presenza negli stemmi delle
Università medievali.11
Tale
duplicità del secolo XIII, tale complementarietà, permea
profondamente
Dante,
egli stesso prossimo all’esilio, nella Vita Nuova XL,
profeticamente definì il pellegrino un esule:
E
dissi «peregrini» secondo la larga significazione del
vocabulo; ché peregrini si possono intendere in due modi, in
uno largo e in uno stretto; in largo, in quanto è peregrino
chiunque è fuori de la sua patria, in modo stretto non
s’intende peregrino se non chi va verso la casa di sa’
Iacopo o riede.
Riprendendo
riguardo a questo le parole di Dante, Cesare Ripa nella sua
Nova iconologia
sugli emblemi del Rinascimento, rappresenterà l’Esilio in
figura di pellegrino.
I.
Il paradigma di Emmaus
In
Luca 24, scritto originariamente in greco, apprendiamo di
due pellegrini in cammino sul far della sera verso
una locanda fuori di Gerusalemme, ai quali si unisce un
terzo, che inizialmente essi non riconoscono. Nella
liturgia questo racconto del Vangelo veniva letto il
lunedì di Pasqua e sovente rappresentato come
dramma accompagnato dal salmo CXIII, «In exitu Israel
de Aegypto», cantato in latino e canto gregoriano.
Si trattava del salmo della liturgia giudaica dell'«Hallel»,
in origine cantato in ebraico portando rami di palma
nel pellegrinaggio al Tempio, 12 ma intonato
sul medesimo Tonus peregrinus
(il IX tono salmodico).
Nella
tradizione medievale, il secondo discepolo, non indicato
per nome, diviene il giovane, imberbe Luca, lo stesso
futuro autore ed Evangelista di quel racconto di
pellegrini; il primo, il più anziano e barbuto Cléopa. Il
testo di Luca parla dei due discepoli affermando «oculi autem illorum
tenebantur, ne eum agnoscerent» [Ma i loro occhi
erano incapaci di riconoscerlo] (24,16) mentre camminando
«dum fabularentur»
[discorrevano e discutevano insieme] (24,15), narrando
racconti di pellegrini. Senza riconoscerlo, Cleopa dice a
Gesù: «Tu solus
peregrinus es in Jerusalem, et non cognovisti quae facta
sunt in illa his diebus?» [Tu solo sei così
forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è
accaduto in questi giorni?] (24,18). E Gesù -
nell'iconografia medievale della scena sotto le spoglie di
pellegrino - rispose loro: «O stulti et tardi
corde ad credendum in omnibus quae locuti sunt
prophetae!» [Sciocchi e tardi di cuore nel credere
alla parola dei Profeti!] (25), iniziando a raccontare
loro dell'Esodo, la storia di Mosè e delle sue
peregrinazioni nel deserto, come di una profezia
riguardante se stesso. Ma è solo al momento della
benedizione e allo spezzare del pane nella locanda che i
discepoli lo riconoscono. Questa è ironia drammatica,
connessa con l'enigma e le ambages. Siamo di fronte
a un rovesciamento delle percezioni. Le personae e
i lettori sono ingannati.
Il
dramma liturgico fondato su Luca
Il
paradigma di Emmaus, del narratore del racconto che
inizialmente è «tardo» da non discernere la presenza di
Gesù in sembianze di pellegrino, è l'espediente del
pellegrinaggio che Dante prende a prestito da Luca. E'
il mantello di cui
l'autore si avvolge per il suo racconto, che è
autocosciente, autoreferenziale, autoriflessivo. La
narrazione peregrina della Vita Nuova. Dante
assumerà nuovamente tale veste per
Nella
Vita Nuova per due volte ritroviamo il racconto di
Emmaus, e la prima volta in cui viene introdotto, nel
capitolo nove, è «mis-read» e non è riconosciuto.
E’
possibile cogliere un’ulteriore relazione con il paradigma
di Emmaus rispetto a quella che potrebbe essere
evidente a un lettore moderno se consideriamo l'Officium
peregrinorum del martedì di Pasqua, uno dei drammi
liturgici monastici, che non soltanto utilizzava il salmo
CXIII «In exitu Israel de Aegypto della liturgia
pasquale, ma anche poneva a prefazione del dramma l’inno «Jesu, amor et
desiderium» [Gesù, amore e desiderio].14
Inoltre pronunciando ROMA a ritroso, il
pellegrinaggio a Roma era verso AMOR, verso Amore. Sovente
facendo ricorso al paradigma di Emmaus i testi medievali
coniugavano l'erotico e il Cristologico, come con
l'incontro di Tristano con due pellegrini veneziani sulle
sponde di Tintagel nel suo pellegrinaggio non verso Cristo
ma verso Isolde, con il pellegrinaggio di Petrarca verso
Laura (Sonetto XVI), quello del Troilo di Chaucer nel
mancato convegno con Criseida, e a Verona con il
pellegrinaggio del Romeo di Shakespeare verso Giulietta.15
Dietro il gioco medievale sul pellegrinaggio,
che può e dovrebbe essere casto - tuttavia, trattato in
chiave parodica come fosse lussurioso - ritroviamo, in
parte, le parole di 1 Pietro 2,11: «Carissimi, obsecro
vos tamquam advenas et peregrinos abstinere vos a
carnalibus desideriis, quae militant adversus animam»
(Carissimi, io vi esorto, come stranieri e pellegrini
sulla terra ad astenervi dai desideri della carne, che
fanno guerra all'anima). Le proibizioni provocano
ridanciane sfrenatezze, burleschi saturnali.
In
questo capitolo nove Dante è partito da Firenze (in
cammino proprio come Luca e Cléopa che sono lontani da
Gerusalemme), quando per via incontra Amore nelle
sembianze di pellegrino: «E però lo dolcissimo segnore
[...] ne la mia immaginazione apparve come peregrino
leggeramente vestito e di vili drappi». Dante, per essere
un pellegrino, è impropriamente a cavallo: «Cavalcando
l'altr'ier per un cammino»; il pellegrino Amore è
giustamente a piedi, e verosimilmente scalzo. (John Donne,
quattro secoli dopo, giocherà con quel paradosso nel suo
«Venerdì Santo cavalcando verso ovest»). Nella
razio del suo poema Dante rimarca quel
all’improvviso Amore «disparve» così come nel paradigma di
Emmaus Cristo «evanuit».
Ma, in questo luogo del testo,
l'apparizione del suo Amore, è più quella di Cupido che
non quella di Cristo. A questo punto del pellegrinaggio
della Vita nuova i riferimenti cristologici
sono con intenzionalità mantenuti vaghi e oscuri e per
la sua persona assimilata a Luca, che è tardo e lento a
credere, e per il lettore stesso che è specchio di lui.
Il
capitolo XL della Vita nuova è l'altra metà di
questo symbolon (paradigma di Emmaus) con i versi
del sonetto:
Deh
peregrini che pensosi andate,
forse di cosa che non v'è presente
venite
voi da sì lontana gente,
com'a
la vista voi ne dimostrate,
che
non piangete quando voi passate
per
lo suo mezzo la città dolente,
come
quelle persone che neente
par
che 'ntendesser la sua gravitate?
Il
commento relativo prosegue parlando di pellegrini che
passando per Firenze si recano a Roma per mirare «quella
immagine benedetta la quale Iesu Cristo lasciò a noi per
essemplo de la sua bellissima figura».16
Nella
Vita Nuova IX quell’immagine di Cristo era
confusa, nella Vita Nuova XL è rivelata. Il Viaggio del pellegrino
dell'opera è volutamente quello di 1 Corinzi 13,12: «Videmus nunc per
speculum in aenigmate, tunc autem facie ad faciem;
nunc cognosco ex parte, tunc autem cognoscam sicut et
cognitus sum» [Ora vediamo come in uno specchio,
in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia.
Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò
perfettamente, come anch'io sono conosciuto].17
In
rapporto a questo pellegrinaggio Dante dà una definizione
accurata e puntuale delle diverse tipologie di pellegrini
in relazione alle loro mete geografiche: Gerusalemme,
Compostela o Roma:
[...] chiamansi
palmieri in quanto vanno oltremare, là onde molte volte
recano
la palma; chiamansi peregrini in quanto vanno a la casa di
Galizia,
però che la sepultura di sa' Iacopo fue più lontana de la
sua
patria
che d'alcuno altro apostolo; chiamansi romei in quanto
vanno a
Roma,
là ove questi cu'io chiamo peregrini andavano.
Dante
vuole qui sottintendere che la sua città, attraversata da
questi pellegrini, è un'altra città di pellegrini, è
un’altra Gerusalemme. Citando
Geremia: «Quomodo
sedet sola civitas» [Ah! come sta solitaria la
città], egli stabilisce tra Firenze e Gerusalemme
un’analogia. L’una per la perdita di Beatrice rispecchia
l'altra per la morte di Cristo, ad imitazione del modo in
cui Cristo considera le profezie riguardo a sé stesso nel
Vecchio Testamento come adempiute nel Nuovo. Dante trae
Firenze nel paradigma di Emmaus e la prima volta avviene
in modo oscuro, la seconda in modo manifesto. In Arte e
illusione, E. H. Gombrich ha discorso di questa
abilità di sostituire una città con un'altra, nell'arte e
nelle stampe; altrettanto fece Emile Mâle.18 La medesima cosa possiamo
osservare nei casi in cui un monte viene identificato con un
altro, come il Monte Ceceri con il Monte Sinai o con il
Monte Ecla in Islanda.
II Il Paradigma dell'Esodo
Sulla
strada per Emmaus, Cristo, Luca, e Clèopa narrano storie,
e uno dei racconti di Cristo è su Mosé, verosimilmente
anche includendo la narrazione dell'Esodo. Sappiamo che
nell'Officium Peregrinorum veniva cantato quel
salmo CXIII «In
exitu Israel de Aegypto», il dramma liturgico dei
Vespri del lunedì di Pasqua, nuovamente narrando il
racconto dell'Esodo. Gli stessi racconti dell'Esodo e di
Emmaus erano visti l'uno quale palinsesto dell'altro.19
Richiamiamo
anche alla memoria come i nomi ebraici e le quarantadue
stazioni dell’Esodo corrispondano al tempo stesso a
lettere e numeri, rendendo a tutti noi - italiani, latini,
greci, ebrei - riconoscibile una consonanza tra le lingue
del Libro fondata sul pellegrinaggio. Da questi due
racconti intrecciati adottando le loro analogie Dante crea un terzo racconto fiorentino,
con la medesima grande cura con cui Bach avrebbe
composto una fuga o una passacaglia.20
Il
pellegrinaggio di Israele nel Deserto del Sinai in quasi
tutta
L'Esodo
fu un evento storico, e per Filone Ebraico, Sant’Agostino
ed altri ancora anche un evento letterario. E’ una storia
di liberazione, una paideia, è il Bildungsroman
di Israele – così come con grande accuratezza lo definirà
Dante nell’Epistola a Cangrande della Scala. Agostino, rammentiamo,
sosteneva essere lecito predicare sermoni cristiani
attingendo dalla poesia pagana. Dio stesso disse agli
Israeliti di prendere a prestito oggetti d'oro dagli
Egiziani e con loro portarli nel deserto (Esodo 12,35).22
Di quell’oro se ne servirono dapprima per
forgiare il vitello d'oro, quando gli Israeliti andando da
Aronne gli dissero: «Surge,
fac nobis deos» (32,1). Così agendo gli Israeliti
infransero il comandamento contro
l'idolatria, contro la fabbricazione di falsi idoli. Nudi danzando attorno al vitello
infransero anche il comandamento contro l'adulterio e la
concupiscenza. E per questi loro atti furono molto
severamente puniti. Lo stesso oro egiziaco servì in
seguito per adornare l'Arca che custodiva le tavole
della legge che contenevano i comandamenti. Tra gli
altri, i comandamenti contro l'idolatria e l'adulterio.
Nel predicare un sermone cristiano ai pagani Ateniesi in
mezzo all'Areòpago Paolo si servì di citazioni tratte
dalla poesia tragica greca (Atti 17). In genere i Padri
della Chiesa si riferivano a questi due episodi per
sostenere che materiale pagano, come con l'oro egiziaco
e la poesia greca, poteva essere utilizzato per intenti
cristiani. L'Esodo era visto, quindi, e come liberazione
storica, e come un’allegoria sulla poesia e la sua duplicità. Dante, rammentiamo, replicherà la
medesima cosa nel Purgatorio. Nel manoscritto napoletano
(ca. 1370), ora British Library Additional 19587, folio
62, Purgatorio
I, nella miniatura a piè di pagina a sinistra vediamo
Catone come Mosé, a destra nella veste di Aronne
Virgilio battezza Dante e lo cinge con un giunco di
mare. Il battesimo è sempre figura del Mare rubrum, in
ebraico, Yam Suf,
«Mare dei giunchi». In Purgatorio II,
Virgilio lasciando che i pellegrini si abbandonino
all’ascolto del canto di Casella della lirica d’amore di
Dante provoca lo sdegno di Catone; Aronne ai piedi
del Monte Sinai fabbrica il Vitello d’Oro accendendo l’ira di Mosé. Nella Vita Nuova,
Dante si servirà di Beatrice e come «vitello d'oro» e
come «Tabernacolo dell'Arca». Ella rappresenta sia la
poesia sia la teologia; e la concupiscenza e la carità.
Il
Medioevo, le sue cattedrali e summae tennero
fortemente in gran conto l’affermazione biblica secondo la
quale Dio ha disposto il mondo con misura, calcolo e peso
(Libro della Sapienza di Salomone 11,20).23
Trentatrè sono gli anni di Cristo al momento della Sua
crocifissione. Il Libro dei Numeri, nel trentatreesimo
capitolo, procede con l’enumerazione delle quarantadue
stazioni dell'Esodo. Queste quarantadue stazioni, le tappe
percorse dai pellegrini, furono di grande importanza sia
nel mondo ebraico sia nel mondo cristiano. A loro
imitazione nelle chiese di Roma, includendo le sette
maggiori basiliche, furono fissate le stazioni di
pellegrinaggio. A imitazione e delle une e delle altre, a
Gerusalemme i francescani fissarono infine quattordici
stazioni di pellegrinaggio a rappresentare i
quattordici eventi della Crocifissione che corrispondono
alle quattordici Stazioni della Via Crucis. L'elencazione delle
quarantadue stazioni dell’Esodo di Numeri 33, unitamente
al significato dei nomi ebraici come offerti da Filone,
Origene, Ambrogio, Gerolamo, Beda, Pier Damiani, è stato oggetto di trattazione in
guide per i pellegrini e nella Glossa Ordinaria.24 In
Numeri 33 essa funzionava come gematria, con le
lettere corrispondenti a numeri e i numeri
corrispondenti a lettere. Qui, anziché solo numeri e
lettere, sono fatti corrispondere numeri e nomi, in un’intertestualità
di spazio e tempo nell'Universo inteso come Libro
scritto da Dio. Per Dante l’elencazione delle
quarantadue stazioni acquista il valore di sistema, un
sistema analogo a quello che più tardi Eco adotterà per
la biblioteca ne Il nome della rosa, lì basato
sull'Apocalisse; qui per
E’
giusto anche supporre che Dante disponesse probabilmente
del «De XLII mansionibus filiorum Israel tractato» di
Sant’Ambrogio e dell'Epistola 78 di Girolamo a Fabiola,
«Ad Fabiolam de mansionibus filiorum israhel per heremum»,
che enumerano le stazioni dell'Esodo, traducendone - più o
meno accuratamente - i nomi ebraici. 25
Questo si ripete nella Glossa Ordinaria,
un testo particolarmente interessante in quanto fonde i
significati delle Scritture ebraiche e del Testamento
greco, vedendo tutti gli eventi in Numeri
Procedendo
nel raffronto tra questi resoconti di pellegrinaggi e le
narrazioni di Numeri 33 avvertiamo un certo livello di
confusione; quantunque tutti rendano crittografico il
significato strutturale della Vita Nuova, come se
una versione di almeno uno di questi resoconti fosse a
portata di mano di Dante nel momento in cui scriveva il
testo. Un lavoro di ricerca nelle biblioteche fiorentine
potrebbe farci scoprire di quali manoscritti
effettivamente si servì Dante. Per certo in alcuni casi il
parallelismo sarebbe perfetto, non così in altri, come se
Dante - che non conosceva l’ebraico - avesse utilizzato le
stazioni dell'Esodo quale schema preparatorio per la sua
opera, allo stesso modo delle sinopie
- gli schizzi preparatori
poi coperti - dell’affresco che illustra il
pellegrino a Tavant. Andata oggi oramai perduta la
copertura sono venuti alla luce il disegno originale dal
colore rosso bruno.
Con acuto sguardo critico James Rose MacPherson
osserva che Fetellus «introduce
una lunga proposizione per quanto concerne l'itinerario
dell'Esodo, nella quale fa menzione di alcune leggende
degne di nota offrendo molte strane interpretazioni dei
nomi delle stazioni delle peregrinazioni nel deserto.
Queste spiegazioni pur apparendo talvolta del tutto
fantasiose e ridicole, non lo sono al tempo stesso più
di quanto fosse comune osservare sino a epoca
relativamente recente».27 Bisogna,
tuttavia, ammettere che il tono dei racconti fondato
sulla credulità suoni alquanto strano a un lettore
moderno. Oggi siamo nominalisti. Il sistema di Umberto
Eco soltanto accidentalmente è congruente con gli eventi
così come traspaiono nel tessuto creativo del suo
romanzo giallo Il nome della rosa, quantunque si
tratti di eventi da lui stesso creati. Ma per il
pensiero altomedievale i nomi, i luoghi, i loro
significati, le loro etimologie sono disegno di Dio,
sono creati da Dio. E' questo lo spirito che permea tali
racconti.
John
Demaray, per il suo Invention of Dante's Commedia,
ripercorre l'itinerario dell'Esodo visitando il Monastero
di Santa Caterina sul Monte Sinai qui scoprendo che le
guide ancora ripetevano ai pellegrini, e quasi parola per
parola, le formule così come riportate nelle guide per
pellegrini di epoca medievale. Ma egli applica le Stazioni
dell'Esodo solo alla Commedia e non alla Vita
Nuova. Da qui risulta chiaro quanto viva ancora sia
la tradizione e la memoria dei luoghi meta di
pellegrinaggio, in cui il Mondo e il Libro, come Singleton
ha dimostrato nel suo Essay on the Vita Nuova,
divengono una cosa sola. Nel Monastero di Santa Caterina
la magnifica icona di Cristo con il Libro che contiene
Numeri 33 e Luca 24 rispecchia per analogia Mosè con le
Tavole della Legge. 28 Questo è il «libro de la memoria»'
di Dante.
Torniamo
ora alla Vita Nuova e procediamo ad un’analisi del
testo con a nostra disposizione i palinsesti del
pellegrinaggio di Numeri 33, servendocene come di un libro
codice per la crittografia dell'opera, e vediamo quello
che accade. Dante osserva nell’avvio che il suo palinsesto
si apre con «una rubrica la quale dice: Incipit vita
nova» [una riga vergata in rosso dove si legge: qui
inizia
E’
semplice leggere Numeri 33, o anche ascoltare il file
audio in ebraico disponibile sul Web. La ripetizione,
lettura (lettere) e ascolto (suono), rinforza la memoria:
<http://media.snunit.k12.il/kodeshm/mp3/t0433.mp3>.
L’elenco
delle stazioni
o «mansioni» comprese tra il «mare Rubrum» e il fiume Giordano dell’Esodo in Numeri 33 è
dato in modo molto primitivo, come il Catalogo delle
navi di Omero, come l’elenco genealogico delle
quarantadue generazioni di Cristo nel Vangelo di Matteo,
come la registrazione della sua genealogia dalla viva
voce di un Maori. (Il file audio con la
voce di Peter Neville è disponibile sul Web
all’indirizzo <http://www.florin.ms/Maori1.mp3>.)
I:
Ramses, רַעְמְסֵס La prima
stazione Ramses significa «confusione» e «penitenza». La
prima parte della Vita Nuova rappresenta l'inizio
del pellegrinaggio di Dante assimilato alle peregrinazioni
dell'Esodo dall'Egitto a Israele, dalla confusione alla
chiarificazione, dalla nascita alla vita fino alla
salvezza. Pellegrinaggio questo che egli può intraprendere
dopo aver compiuto la «spogliazione degli Egiziani».
Gerolamo e Pseudo-Beda danno come data d'inizio di Numeri
33 il secondo giorno dopo
II:
Succoth, סֻכֹּת. La seconda
stazione è quella di Succot («Tabernacolo», «tende»). Nell'Esodo e altrove è detto che
il colore dominante dell’Arca dell’Alleanza del
Tabernacolo di Dio è il rosso, il cremisi, lo scarlatto.
E questa è la veste di Beatrice: «Apparve vestita di
nobilissimo colore, umile ed onesto, sanguigno.» Il
Tabernacolo dell'Arca doveva essere custodito nel Sancta
Sanctorum, nel Tempio di Gerusalemme. Dante dice
qui «lo quale dimora ne la secretissima camera de lo
cuore». E’ qui significativo osservare che Beatrice è
associata a Miriam, a Maria, e a Cristo. Nel racconto
dell'Esodo della Vulgata il nome di Miriam è quello di
Maria, e gli Apocrifi raccontano la storia della Vergine
che fila e tesse la tela rossa per la cortina del
Tempio, ella stessa essendo l'Arca Dei, l'Arca di
Dio.29 L'ufficio di Dante qui diviene e
quello di Mosè davanti al roveto ardente e quello di Aronne
al quale è concesso accedere al Sancta Sanctorum,
seppur una sola volta all'anno. Perfettamente
appropriato qui «l'oro egiziaco» di Omero: «Ella non
parea figliuola d'uomo mortale, ma di deo». Nell’inno
alla Vergine che Dante mette in bocca a san Bernardo,
Maria come «figlia del suo figlio» è il paradosso di Paradiso
XXXIII.1-36. La reazione di Dante alla visione di
Beatrice è quella di Mosè alla visione di Dio.
Nell'icona del Monastero di Santa Caterina Dio e
Mosè sono l’uno specchio dell’altro.
III:
Etham, אֵתָם. La
terza stazione, Etam, è quella della colonna di nubi e di
fuoco. E’ la stazione del «coraggio», della «perfezione»,
e della «solitudine». Qui Dante incontra la mirabile
Beatrice dapprima vestita di colore bianchissimo, e in una
visione «avvolta in uno drappo sanguigno» tra le braccia
di Amore. Dante è dapprima timoroso e trepidante, la
stessa Beatrice timida e paurosa. Né l’uno né l’altra
mostrano audacia. Per giungere a questa visione, durante
la quale egli intende le parole «Ego dominus tuus»
[Io sono il tuo signore], Dante si è ritirato nella
solitudine della sua stanza. Le corrispondenze tra queste
sezioni sono nuovamente molto chiare.
IV.
Phihahiroth, פִּי הַחִירֹת. Il
quarto luogo è Pi-Achirot, il luogo dove crescono le canne;
qui Dante è divenuto così debole e fragile, «di sì fraile e
debole condizione», da generare grande apprensione tra i
suoi amici. E' «fragile come una canna».
V.
Mara, מָרָה. La quinta
stazione è quella di Mara, che significa «amarezza», anche
associata con un gioco di parole a «Maria». Dante parla di
bearsi alla vista de «la regina della gloria», attributo
comunemente riservato alla Vergine Maria, qui, piuttosto
chiaramente, detto di Beatrice.
VI.
Elim, אֵילִם. La sesta è la
stazione di Elim, «arieti», nota per le sue dodici
sorgenti d'acqua e settanta palme. A questo punto mi sorge
spontanea la domanda se esistano dei manoscritti che
parlino di «settanta», piuttosto che non di «sessanta»
donne alle quali egli scrive il suo serventese.
VII.
Mare rubrum (Yam-Suf), יַם-סוּף. La
settima stazione è quella del cammino compiuto dagli
Israeliti quando si accampano presso il Mar Rosso («Mare
delle canne») agitato dai tempestosi flutti. Qui Dante
parla due volte del viaggio nel suo sonetto in volgare: «O
voi che per la via d'Amor passate,/ attendete e guardate/
s'elli è dolore alcun, quanto'l mio grave»; ancora
ritroviamo reminiscenze di questo, o, piuttosto, questo è
riecheggiato, nelle parole di Geremia in un latino grave:
«O vos omnes qui
transitis per viam, attendite et videte si est dolor
sicut dolor meus» [tutti voi che andate per via,
osservate, e guardate se c'è alcun dolore simile al mio].
Queste sono le parole che sovente troviamo incise ai piedi
della croce. Ma Dante impiega il linguaggio religioso in
modo blasfemo, Bachtianamente, per la concupiscenza
piuttosto che non per la carità.
VIII.
Sin, סִין. L'ottava
tappa è quella del deserto di Sin, che significa «roveto» e
«odio». In questo capitolo Dante compiange la morte di una
giovane bella donna e biasima la morte come sua nemica che
egli vitupera: «Morte villana, di pietà nemica/ […] di te
blasmar la lingua s'affatica».
IX.
Daphca, דָפְקָה.
La
nona stazione di Dofka, significa «battente» o
«scalpitante», e possiamo giungere a tale significato solo
per il rumore degli zoccoli del cavallo in «Cavalcando»
[«Cavalcando l'altr'ier»]. In altre spiegazioni è
Raphaca che significa «salus», «salute» e «salvezza». Amore appare a Dante
mentre ambedue viaggiano lungo un bel fiume. Più tardi
arriviamo a comprendere che Amore è anche Cristo, «salus noster».
X.
Alus, אָלוּשׁ. La
stazione successiva, la decima, è Alus, che significa
«scontento», e descrive l'infelicità di Dante a causa del
saluto negatogli da Beatrice. Qui gli Israeliti mormorano
per la fame e ricevono in dono le quaglie e la manna.
XI.
Raphidim, רְפִידִם. L'undicesima
stazione, Refidim o «desolazione degli intrepidi», è il
luogo dove gli Israeliti adorano nell’errore l'idolo del
vitello d'oro. Dante rende qui omaggio a Beatrice e sente
il cuore ardergli dentro (quell'unione di concupiscenza e
carità del paradigma di Emmaus) alla vista di lei. Il
testo coglie le due differenti percezioni di Dante
riguardo a Beatrice, con concupiscenza, con carità, e la
stessa identica donna sta a rappresentare per lui, prima
il vitello d'oro, forgiato con l'oro delle spogliazioni
degli Egiziani, poi il Tabernacolo dell'Arca fabbricato con quello stesso
oro e argento preso a prestito dagli Egiziani. Ella è la
moglie di un altro, egli un adultero che desidera
infrangere la legge mosaica. In accordo con una
consuetudine generalizzata tendiamo
a leggere
XII.
Sinai, סִינָי.
La
dodicesima stazione è il Deserto del Sinai. Mosè, dopo
essere stato sul monte,
ritorna qui al suo popolo con le Tavole della
Legge. Distrutto il vitello d'oro viene costruito il
Tabernacolo. In questo capitolo Dante parla di «ritornare»
al suo proponimento ritirandosi
in un luogo solitario a piangere dopo che Beatrice gli
ha negato il saluto. Gli appare un giovane in vesti
bianchissime che parlando gli chiede di mettere da parte
tutti i suoi idoli: «Fili mi, tempus est
ut pretermictantur simulacra nostra» [Figlio mio,
è tempo di abbandonare le nostre finzioni]. Anche il
Salmo CXIII mette l’accento sulla parola «simulacra».
Dante ha fatto di Beatrice, o della sua poesia intorno a
Beatrice, tale simulacra, tale idolo, tale
vitello d'oro, quando ella in realtà è un'icona,
un'arca, un’imago di beatitudine. Dante-persona
ha confuso significante e significato così divenendo un
idolatra. Amore dice poi a Dante che egli soffre a causa
di una boeziana perdita di prospettiva: «Ego tamquam centrum
circuli, cui simili modo se habent circumferentiae
partes: tu autem non sic». Lascerò questo rigo
volutamente intradotto così preservandone il carattere
ermeneutico, il suo aspetto privilegiato, il suo
cerchio, chiuso, intatto e integro.
XIII.
Cibrottaava,
קִבְרֹת
הַתַּאֲוָה. Nella tredicesima stazione, Kibrot-Taava, i
«sepolcri dell'ingordigia», il luogo dove gli Israeliti
sono presi dalla bramosia per le pentole di carne
dell'Egitto, Dante scrive una canzone d'amore, e come
colui che è incerto e non sa per qual via muovere il passo
desidera ardentemente invocare pietà dalla sua donna,
della quale parla in modo disdegnoso. Dante si comporta
qui come quegli Israeliti ribelli amanti dell'Egitto presi
dal grande risentimento per il dominio di Mosè su di loro,
per le peregrinazioni nel deserto, la manna e le quaglie
di cui si cibarono.
XIV.
Aseroth, חֲצֵרֹת. La
quattordicesima stazione di Cazerot («cortili
perfetti» o «beatitudine») è il
luogo dove Aronne e Miriam manifestano la loro
riprovazione per il matrimonio di Mosè. In
questo capitolo Dante assiste ad un matrimonio, a cui la
stessa Beatrice è presente. A quel matrimonio di Mosè
con la figlia del re etiopico, il Signore punisce Miriam
con la lebbra. Il nome di questa stazione si dice
significhi «offesa». In questa scena siamo testimoni
dell’improvvisa malattia di Dante, come se egli vestisse
i panni di Miriam. Beatrice, per converso, impersona nei
confronti di lui la parte di Mosè. In Numeri 12 Aronne
deve, quindi, condurre Miriam fuori dell'accampamento e
lontano dal Tabernacolo per un certo arco di tempo.
Dante è condotto via dal luogo dove tante donne si sono
adunate, tra
esse anche Beatrice. Un amico fa qui le veci di
Aronne.
XV.
Rethma, רִתְמָה.
La quindicesima stazione, Ritma, non ha
un’esatta corrispondenza con
XVI.
Remmonphares, רִמֹּן
פָּרֶץ. La stazione
successiva, Rimmon-Perez, significa la «divisione della
melagrana». La veste di Aronne era ricamata con melagrane
e sonagli; Robert Browning raccoglie tale allusione per le
sue poesie in Bells and Pomegranates. Si riferisce
qui Dante forse alle suddivisioni delle sue poesie, che
rimandano ad Aronne, con le quali celebra e compie atti di
adorazione davanti all'Arca, davanti a Beatrice, dopo aver
inizialmente fatto di lei il suo vitello d'oro? Se così
fosse, il ruolo di Dante come Aronne, che fa di Beatrice
un vitello d'oro, idolo adorato nell'errore, è parimenti
brutalmente distrutto e da Dio e da Beatrice. Ella è il
suo Mosè, che, con la sua morte assimilata a quella di
Cristo, va a scrivere in modo inverso il suo racconto,
modellando così
XVII.
Lebna, לִבְנָה. Nel capitolo diciassettesimo, Dante scrive di
aver trovato una nuova materia di canto, non più parlar di
se stesso (con quella stessa autocommiserazione che Boezio
al tempo stesso schernì, come giù giù atttraverso i secoli
fecero i sonettisti dopo di lui ), ma di più nobili
pensieri. Questa stazione, Libna, è interpretata come
«bianchezza».
XVIII.
Ressa, רִסָּה. La
diciottesima stazione, Rissa, significa «freno», che Dante
ci mostra con il suo blocco nella scrittura -
autocosciente e autoreferenziale – che imbriglia la sua
arte: «e pensando molto a ciò, pareami avere impresa
troppo alta matera quanto a me, sì che non ardia di
cominciare; e così dimorai alquanti dì con disiderio
di dire e con paura di cominciare».
XIX.
Ceelatha, קְהֵלָתָה. La diciannovesima stazione, Keelata, significa
«assemblea» o «chiesa», e in alcune fonti anche
«principio». Dante parla di cominciare a scrivere,
e quello che scrive è una canzone rivolta ad una assemblea
di donne che per intuito sanno cosa è amore.
XX.
Hor Sepher, הַר-שָׁפֶר. La ventesima
stazione, il monte Sefer, è quella della «bellezza» o di
«Cristo». Per tre volte
XXI.
Arada, חֲרָדָה. La
ventunesima stazione, Arada, significa «miracolo»; ci
viene qui detto nella prima parte che Beatrice
mirabilmente operando fa esistere l'amante che è in
potenza. Si chiude parlando del suo mirabile sorriso.
XXII.
Maceloth, מַקְהֵלֹת.
La ventiduesima stazione, Makelot è, nuovamente
«assemblea» o «chiesa» e nella Vita
Nuova XXII ascoltiamo di
donne che si sono adunate per essere con Beatrice quando
ella piange la morte del padre.
XXIII:
Thahath, תָחַת. La
stazione ventitreesima, Tacat, significa «paura», e nella
Vita Nuova XXIII siamo testimoni del terrore di
Dante a causa dalla sua infermità. Egli crede di essere in
punto di morte. A questo segue il suo sogno della morte di
Beatrice assimilata a quella di Cristo. Alla morte di lei
il sole e le stelle si eclissano, gli uccelli che volano
per l'aere stramazzano morti sulla terra scossa dai
terremoti. Un altro significato per questa stazione è
«pazienza». In tutta questa parte troviamo riferimenti
alla «paura» e alla consolazione. Questo capitolo evoca alla mia
mente gli affreschi di Giotto nella Cappella degli
Scrovegni a Padova, in particolare
XXIV:
Thare, תָרַח. La
ventiquattresima stazione, Terach, significa «pascolo». Lo
stesso bel capitolo XXIV della Vita
Nuova - nel quale Beatrice
viene fatta precedere dalla donna dell'amico,
XXV:
Methca, מִתְקָה. La venticinquesima stazione, Mitka, è quella
della «dolcezza»; ci ritroviamo qui nel mondo di Guido
Cavalcanti e nella cerchia poetica del «dolce stil nuovo».
(Brunetto Latino fu anche maestro di Guido Cavalcanti).
XXVI:
Hesmona, חַשְׁמֹנָה. La
ventiseiesima stazione, Asmona, si dice significhi
«affrettandosi», e nella Vita Nuova XXVI sappiamo
di persone che corrono per ammirare Beatrice che passa per
la via, «le persone correano per vedere lei».
XXVII:
Moseroth, מֹסֵרוֹת. La ventisettesima stazione, Moserot, significa
«legami», «disciplina». Qui Dante dice di essere sotto la
signoria d'Amore.
XXVIII:
Beneiacan,
בְנֵי יַעֲקָן. La ventottesima stazione è Bene-Iaakan, «figli
del bisogno». Qui vediamo Firenze privata della sua
Beatrice, la città è rimasta orfana e nello stato di
bisogno.
XXIX:
Hor Gadgad, חֹר הַגִּדְגָּד. Ventinovesima stazione, Or-Ghidgad, significa
«messaggero», «cingere», «circoncisione». In questo
capitolo Dante associa il concetto di Beatrice come un
nove all'astronomia sia secondo il pagano Tolomeo sia
secondo la dottrina cristiana. Un’astronomia che si serve
di cerchi nei cerchi, di ruote nelle ruote.
XXX:
Ietebatha, יָטְבָתָה. Trentesima
stazione, Iotbata, è quella «del Bene» e di «Cristo».
Dante ancora una volta cita Geremia su Gerusalemme rimasta
vedova senza Cristo e parla della sua amicizia con
Cavalcanti e del loro comune intento di scrivere in
volgare (nel «dolce
stil nuovo») piuttosto che non in latino.
E’ per questo, dice Dante, che non può dare in latino le
altre profezie su Cristo.
XXXI:
Ebrona, עַבְרֹנָה. La trentunesima stazione, Abrona, significa
«passaggio». Qui Dante parla della morte di Beatrice, «Ita
n'è Beatrice», e del suo dolore.
XXXII:
Asiongaber,
עֶצְיֹן גָּבֶר. La trentaduesima stazione, Ezion-Gheber,
significa «consiglio degli uomini». Il fratello di
Beatrice domanda qui a Dante di comporre una canzone per
loro due cercando
in tal modo consolazione per la morte di lei con la loro
amicizia.
XXXIII:
Cades, קָדֵשׁ. Nella
trentatreesima stazione, Kades, «santa»
o
«trasferita», muore Miriam e viene sepolta. Nella Vita
Nuova XXXIII sappiamo che Dante parla con il
fratello di Beatrice, insieme a Guido Cavalcanti ora suo
grande amico. Dante compone la canzone che il fratello
ed egli stesso, come «servo» di Beatrice e suo
adoratore, declameranno in sua memoria. Nella Glossa
a Numeri 33 si parla di Aronne fratello di Miriam e
nella Vita Nuova XXXIII del fratello di
Beatrice sciolti in pianto.
XXXIV:
Hor Hor, הֹר הָהָר. Nella
trentaquattresima stazione Aronne muore sul monte Or: lo
custodiscono Dio e i suoi angeli. Sconosciuto rimane il
luogo della sua tomba. Nella Vita Nuova XXXIV
Dante disegna figure d'angeli (uno splendido dipinto molto
autoreferenziale di Dante Gabriel Rossetti che rappresenta
la scena è conservato all'Ashmolean Museum di Oxford). E'
l'anniversario della morte di Beatrice.
XXXV.
Salmona צַלְמֹנָה o
Oboth. La trentacinquesima stazione in alcuni resoconti è
Salmona («piccola
immagine»), in altri Obot, che
significa «profetessa», «pitonessa». Dante vede qui la
donna che lo guarda da una finestra e intuisce lo
stato del suo animo.
XXXVI.
Phinon, פוּנֹן La
trentaseiesima stazione è quella di Punon,
«bocca». Qui gli Israeliti mormorano nuovamente per la
fame e vengono morsi dai serpenti.
XXXVII.
Oboth, אֹבֹת La
trentasettesima stazione è nuovamente Obot, «pitonessa»,
ed ancora
su questa donna.
XXXVIII.
Ieabarim,
בְּעִיֵּי הָעֲבָרִים La trentottesima
stazione Abarim significa «pietre» e «trapassare». Queste
stazioni, dalla trentacinquesima alla trentottesima, non
sembrano più avere una grande consonanza con i capitoli della Vita Nuova.
XXXIX:
Dibon-Gad,
דִיבֹן גָּד. Con la
trentanovesima, però, la
consonanza è nuovamente chiara, Dibon-Gad, significa
«tentazione degli occhi», «chiusura» e
«confusione». Qui Dante parla del senso di vergogna per
lo stato di infermità dei suoi occhi. All’ora nona si
ripete la visione di Beatrice così come ella apparve a
lui la prima volta, ed egli è colmo di vergogna
per avere mal interpretato con una lettura non corretta
la sua mappa dell'Esodo come un ritorno verso l'Egitto
con la ricaduta nel peccato, piuttosto che non quella
del pellegrinaggio verso Gerusalemme.
XL:
Elmondeblathaim, עַלְמֹן
דִּבְלָתָיְמָה. La
stazione successiva, la quarantesima, Almon-Diblataim, è
quella della «vergogna per le vie» o «disprezzo
del mondo». Dante vede qui i pellegrini in cammino per le
strade fiorentine alla volta di Roma; il modello
dell'Esodo si interseca qui con quello di Emmaus in
questa fuga.
XLI:
Ieabarim, הָרֵי הָעֲבָרִים. La quarantunesima stazione è il monte Abarim, il
«monte dei trapassati». Qui Mosè muore senza raggiungere
materialmente
XLII.
Giordano di Gerico, יַרְדֵּן יְרֵחוֹ. La stazione
successiva è nella regione di Moab presso Gerico sul
Giordano, che significa «discesa», e presso Galgala, delle «dodici
pietre» o «rivelazione». Dante
chiude qui la sua Vita Nuova con la rivelazione
di Beatrice nei cieli che contempla il Santo Volto di
Dio. Ella è a Sua immagine. La sua icona, non più idolo,
può essere ora riflessa nel Libro della Memoria di
Dante, in quella mappa di pellegrinaggio dell'Esodo e di
Emmaus, mediante analogie con Aronne e Mosè, Luca e
Cristo, parimenti chiari e al lettore e all’autore.
Questi
paradigmi dell'Esodo e di Emmaus - Vecchio e Nuovo
Testamento - quantunque non siano affatto tutta
Siamo
a conoscenza dell’incantevole sonetto di Pasqua, che Dante
probabilmente compose per Brunetto Latino - maestro suo e
di Guido, che ad entrambi insegnò i testi averroistici
acquisiti in Spagna - e che accompagnò il manoscritto
della Vita Nuova offerto in dono all’amico. Un
altro sonetto, in compianto del defunto Brunetto, parla di
un pellegrinaggio nel deserto.33
Brunetto stesso scrive un'opera di
pellegrinaggio, Il Tesoretto, prendendo a suoi
modelli Boezio, Alanus ab Insulis, il Roman de
Gli
accadde di trovarsi al Passo di Roncisvalle sulla via del
ritorno in patria dall’ambasceria presso
Anche
Note
1
Originariamente pubblicato in inglese, e con la
traslitterazione in lettere romane dei nomi ebraici delle
XLII Stazioni, in «Dante Studies» CIII (1985),
103-104. Opere citate DANTE ALIGHIERI,
Tutte le opere, a cura di Luigi Blasucci,
Sansoni, Firenze, 1981;
2
DANTE ALIGHIERI,
3 CHARLES S. SINGLETON, An
Essay on the Vita Nuova,
4 MICHEL FOUCAULT, The
Archeology of Knowledge and The Discourse on Language
(New York: Pantheon 1982); FREDRIC JAMESON, Metacommentary,
PMLA LXXXVI (1971), 9-17.
5 ERWIN PANOFSKY, Early
Netherlandish Paintings: Its Origin and Character,
6 ERICH AUERBACH, Figura
in Scenes from the Drama of European Literature,
trad. Ralph Manheim,
7
Il sonetto di Dante per Brunetto Latino - che accompagnava
il suo dono pasquale del manoscritto della Vita Nuova
- nella traduzione di Dante Gabriel Rossetti compare in Dante
and his Circle with the Italian Poets Preceding Him, London:
Ellis and Elvey 1892, p. 96; su questo sonetto si
veda BRUNETTO LATINI, Il
Tesoretto, a cura e trad. di Julia Bolton Holloway,
New York: Garland 1987, p. xviii; testo italiano in Raccolta
di rime antiche toscane, Palermo: Assenzio 1817, vol.
II, p. 32:
Messer
Brunetto, questa pulzella
Con
esso voi si vien
Non
intendete pasqua da mangiare,
Ch'ella
non mangia, anzi vuol essere letta.
La
sua sentenza non richiede fretta,
Nè
luogo di romor, né da giullare;
Anzi
si vuol più volte lusingare,
Prima
che in intelletto altrui si metta,
Se
voi non la'ntendete in questa guisa,
In
vostra gente ha molti frati Alberti,
D'intender
ciò, che porta loro in mano,
Color,
v'me stringete senza risa,
E
se gli altri de' dubbj non son certi,
Ricorrete
alla fine a Messer Giano.
8 STANLEY E. FISH, Progress in «The Pilgrim's
Progress», in Self-Consuming Artifacts:
The Experience of Seventeenth-Century Literature,
9 THOMAS S. KUHN, The
Structure of Scientific Revolutions,
10
JULIA BOLTON HOLLOWAY, Alfonso el Sabio,
Brunetto Latino, Dante Alighieri, «Thought»,
60 (1985), 471; trattato ulteriormente in Twice
Told Tales.
11 BERYL SMALLEY,
The Study of the Bible in the Middle Ages, Notre
Dame: University of Notre Dame Press 1964; GABRIEL L.
ASTRIK, The Significance of the
Book in Medieval University Coats of Arms, in «Medieval and
Renaissance Studies», a cura di O.B.
Hardison, Jr., Chapel Hill: University of North Carolina
Press 1966.
12 JOHN F. MAHONEY, The Role of Statius in
the Structure of the «Purgatorio», «79° Annual Report of
the Dante Society» (1961), 11-
13 ROBERT
HOLLANDER, «Vita Nuova»: Dante’s
Perceptions of Beatrice», «Dante Studies» XCII (1974),
1-18.
14
EDMOND DE COUSSEMAKER, Drames
liturgiques du Moyen Age, Paris: Vatar, 1861; GIAMPIERO TINTORI, Sacre
rappresentazioni
del manoscritto 201 della Bibliothèque Municipale di
Orléans, Cremona: Athenaeum Cremonense 1958, p. lxxi.
15 ROGER SHERMAN LOOMIS, The
Romance of Tristan and Ysolt,
16
Si suppone, in genere, trattarsi del panno della Veronica,
esposto in San Pietro ai pellegrini il venerdì santo. Ma uno
studio della pratica del pellegrinaggio a Roma nel secolo
XIII indica, invece, trattarsi del Volto Santo di Cristo nel mosaico dell'abside di
San Giovanni in Laterano, che si narra fosse
miracolosamente fluttuato nella basilica attraverso la
porta dorata. Guardare questo Santo Volto, meritava
al pellegrino, anche nel secolo XIII, l'indulgenza
plenaria. Il Laterano, quindi, in importanza e santità di
gran lunga superava il Vaticano. HARTMANN GRISAR,
History of Rome and the Popes in the Middle Ages,
trad. Luigi Cappadelta,
17 GERHART B. LADNER, Idea
of Reform: Its Impact on Christian Thought and
Action in the Age of the Fathers,
18 E. H. GOMBRICH, Art and Illusion,
19
JONATHAN D.
SPENCE (Il
Palazzo della memoria
di Matteo Ricci, Il Saggiatore, Milano, 1987), The Memory Palace
of Matteo Ricci, Harmondsworth: Penguin 1985, pp.
128-
20 DOUGLAS R. HOFSTADTER, Gödel,
Escher, Bach: An Eternal Golden Braid, New
York: Vintage 1979; OTTO VON SIMSON, The Gothic Cathedral: Origins of
Gothic Architecture and the Medieval Concept of Order, Princeton:
Princeton University Press 1974, p. 42; KATHI MEYER, The Eight Gregorian
Modes on the Cluny Capitals, «Art Bulletin»,
XXXV (1952), 81-
21
E. PROTO,
Rassegna critica della letteratura italiana, 17
(1912), p. 246; HOLLANDER, Dante’s Perceptions of
Beatrice, «Dante Studies», XCII (1974), 18, n. 38.
22 SANT’AGOSTINO, On
Christian Doctrine, trad. D. W. Robertson, Jr.,
23
SIMSON, Gothic Cathedral,
pp. 21-50.
24
Patrologia Latina, a cura di J. P. Migne, vol. CXIII,
coll. 438-444.
25 [PSEUDO-]AMBROGIUS, De XLII mansionibus
filiorum Israel tractato, Migne, vol. XVII, coll.
9-40: <http://www.documentacatholicaomnia.eu/02m/0339-0397,_Ambrosius,_De_XLII_Mansionibus_Filiorum_Israel_Tractatus,_MLT.pdf>;
SAN GIROLAMO, Epistola 78, Ad
Fabiolam de mansionibus filiorum israhel per heremum,
CLCLT.CD della Universitas Catholica Lovaniensis/Brepols,
Cetedoc Library of Christian Latin Texts; Il Viaggio dell’Anima,
a cura di Manlio
Simonetti, Giuseppe Bonfrate e Piero Boitani, Milano:
Mondadori, 2007; The Madaba Mosaic Map
<http://198.62.75.1/www1/ofm/mad>.
26 JOHN G. DEMARAY, The
Invention of Dante's Commedia, New Haven: Yale
University Press 1974, pp. 46-47, 155-156; PAOLO AMADUCCI,
27 FETELLUS, Palestine Pilgrims' Text Society, a cura di
James Rose MacPherson,
28 KURT WEITZMANN, The
Monastery of Saint Catherine at Mount Sinai,
Princeton:
29 GAIL MACMURRAY GIBSON, The Thread of Life in
the Hand of the Virgin, Duke University Art Museum
1972, ripubblicato in Equally in God's Image:
Women in the Middle Ages, a cura di Julia Bolton
Holloway, Joan Bechtold, Constance S. Wright, New York:
Peter Lang 1990, pp. 144-63.
30 D.W. ROBERTSON Jr, The
Doctrine of Charity in
Medieval Literary Gardens: A Topical Approach Through
Symbolism and Allegory, «Speculum» XXVI (1951), 24-49;
Petri Allegherii super Dantis ipsius genitoris Comoediam
Commentarium, Firenze 1856; PIETRO ALIGHIERI, Comentum super poema
Comedie Dantis, Tempe: Arizona Center for Medieval and
Renaissance Studies, 2005, p. xiii, 69, 132.
31
Il sonetto composto in compianto di Brunetto Latino si apre
con il grande dolore del poeta per la perdita del suo
Brunetto gioioso: «Brunetto Gajoso» (Raccolta, 1817,
vol. I, p. 105), per continuare poi:
I'
voglio dipartirmi, e amantellato
Andar
vagando, come pellegrino,
Sin
che trovo un bosco disertato.
Voglio
cangiare con l'acqua lo vino,
In
ghiande lo mio pane dilicato.
Pianger la sera, la notte, e'l mattino.
32
33
JAMES JOYCE, Ritratto
dell'artista da giovane,
Adelphi, Milano, 1990.
THE VITA NUOVA:
PARADIGMS OF PILGRIMAGE1
he Vita Nuova is, as translator Barbara Reynolds notes, a work by a poet for poets about poetry.2 It is also, as Charles Singleton in his Essay on the Vita Nuova, has ably demonstrated, a book about the Book.3 It is thus self-conscious, self-referential, and self-reflective, at the same time that it is a Janus text, written with ambages, riddling ambiguities, deliberate doublenesses of meaning (Aeneid VI.29,9; De vulgari eloquentia I.10). It is a hermeneutic and cryptographic text and much of its encoding has to do with pilgrimage. It was written in a period when critical theory was theology, when sacred texts were mirrored in secular texts, and when reconciling ambages were mandated by cultural pluralism.
The hermeneutic of the Vita Nuova can be uncoded through an archeology of its text;4 of its intertextuality with a prior text which in turn describes a geography alien and foreign to Dante's, one being of Israel in Asia, the other of the Sinai in Africa, as well as being of his native Florence and of Rome in Europe. Dante creates upon the Old and New Testaments using Exodus and Emmaus paradigms a palimpsest, reshaping the Bible's Hebrew, Greek and Latin into Florentine Italian. I would argue also that the cultural context explains both the text and its method, its cryptography. This essay will attempt to unravel those parts of its riddle that have to do with pilgrimage and its paradigms.
The thirteenth century is the century of the "sweet new style," the dolce stil nuovo, of the Gothic, which borrowed motifs from the Saracen, observed in Spain, Sicily, and the Jerusalem Kingdom, where the Christian culture encountered through its crusades and its pilgrimages the rich pluralism of the other Peoples of the Book, and made that ultra-civilized material ultra-Christian in contradistinction to the Romanesque, which it now chose to interpret as Oldness, whether Roman or Judaic, Hellenic or Hebraic. Panofsky has shown how this period made use of these two styles in a coded language, conveying Oldness and Newness side by side, the one fulfilling the other, not destroying it.5 Auerbach and Jameson have shown how medieval theology brought together disparate modes for reading texts into a complementarity, a rich co-existence that continued until the stystem became too unwieldy, overloaded, and contradictory for readers in more modern times.6
Pilgrimage was seen by theologians, Philo Judaeus among them, as paideia, as education. The Vita Nuova is associated both with pilgrimage and with education, and is even said to have been given by Dante Alighieri to his teacher, Brunetto Latino, accompanied by a sonnet which speaks of its text as a Janus one.7 This text functions as epistemology, of both its writer and its reader; both are required to crack its code, its enigma.8 Related works through time are Augustine's Confessions, Boethius' Consolation, Wireker's Speculum Stultorum, Erasmus' Praise of Folly, More's Utopia, Bunyan's Pilgrim's Progress, Joyce's Portrait. These works use authorial personae and specula, masks and mirors, and are learnedly playful, childishly arcane. They pivot upon a fulcrum, upon conversions ("Tolle, lege, tolle, lege"); they are bookish and about education; and they contain equal and opposite meanings in their dialectic mode.
The thirteenth century is the century of Aristotle, whom Brunetto Latino taught to Dante Alighieri, and whose works were likewise borrowed from the Arabs who had preserved the Greek texts when the Christians had not, and who was now made ultra-orthodox by Aquinas after a bitter, initial rejection of his writings as heretical. What is witnessed here is a paradigm shift of great importance to Western culture, albeit censored and disguised.9 Latino and Dante are master and disciple, each in turn conveying that new and initially suspect and controversial learning, and who both reconcile the Greco-Arabic mode to the Judeo-Christian one in a dialectic. This willingness to accept a doubleness of thought further encouraged the marriage of the Old and New Testaments as justification of the similar juxtaposition of philosophy and theology, the Greco-Roman and the Judeo-Christian. Beryl Smalley has discussed this aspect of medieval Biblical study and Gabriel Astrick has demonstrated its presence in medieval universities' coats of arms.10
This doubleness of the thirteenth century, this complementarity, is deeply embedded in the Vita Nuova which is a Gothic and Averroistic text that plays upon prior texts. In the Vita Nuova Dante is deconstructing his own earlier poetry, finding deeper layers of meanings to it than he at first suspected were there. He is playing with its doubleness, its intertextuality, to God's text and to Aristotle's. Its text will teach him God's Commandments given to Moses and Aaron and Aristotle's Ethics; theology and philosophy; Hebraism and Hellenism. The Vita Nuova is thus a work that presents a map of misreading, as a Janus text with another and opposite meaning behind its apparent surface text, both being of value, like some manuscript palimpsest where a Romanesque liturgical text has been overlaid by a Gothic Ovid or, as in the actual case of a Brunetto Latino manuscript, where a thirteenth-century legal text has been scraped clean and upon it placed Latino's translation of Aristotle's Ethics, acquired by him in Spain and copied out in France, where he was exiled following the Battle of Montaperti and before that of Benevento, as in Yale's Marston 28.
The thirteenth is the century of the university and all these reconciled texts, philosophical and theological, Greco-Roman and Judeo-Christian, are crucial for the medieval lecture hall and for those pedagogic establishments set up in legal chambers and chanceries in the cities lacking universities. We know that Brunetto Latino taught his students in Arras and in Florence in this manner, from texts acquired in quasi-Saracen Spain, and that one of his students was the young Dante Alighieri, another having been Guido Cavalcanti.11
The Vita Nuova can be taught in courses on
medieval pilgrimage and poetry, and students in them shown a
way of uncoding its text through the paradigms and even
literal maps of pilgrimage. There are two major paradigms of
Judeo-Christian pilgrimage which are used in medieval literary
texts: the Emmaus and the Exodus patterns. It should be
previously explained to students in such a course that the
Hebraic world had required three pilgrimages annually to the
Temple in Jerusalem of all Jewish males, at Passover,
Pentecost, and Tabernacles, all of which ritually replicated
the Exodus pilgrimaging and at which pilgrims laid palms on
the horns of the Temple's altar. Then it can be shown how
these Hebraic pilgrimages liturgically, archeologically,
inform the later Christian ones, all of these shaping the Vita
Nuova as well as other major pilgrimage texts.
I. The Emmaus Paradigm
The Emmaus paradigm, of the teller of the tale who is at first foolish and who later comes to comprehend the presence of Jesus as the pilgrim, will be a pilgrimage device Dante will borrow from Luke. It is his authorial mantle for the self-conscious, self-referential, self-reflective telling of the Vita Nuova, its pilgrim narration. That garb will be donned again for the Commedia, Dante there being as Luke, Virgil, his Cleophas and likewise Aaron, in Dante's figural structuring.
The liturgical drama, the Officium Peregrinorum, based upon Luke 24, had powerfully presented the paradoxes of recognition and resurrection. Dante is to use that dramatic episode again, intertextually, in Purgatorio XXI.7-11,
Ed ecco, sì come ne scrive Lucawhere he has two poets, Virgil and Dante, be met by a third, Statius. The encounter of two pilgrims by a third is at last made overtly as the Emmaus paradigm; but previously, throughout Hell and Purgatory, each meeting of the two, Virgil and Dante, with others had covertly been in that Emmaus matrix of pilgrimage. For the Emmaus tale is explicitly about initial non-recognition through folly and sin; it is a Pilgrim's Progress.
che Cristo apparve a' due ch'erano in via,
già surto de la sepulcral buca[And, just as Luke had written of it, that Christ appeared to the two who were on the road, having already risen from the sepulchral cave],
In the medieval tradition the second, unnamed disciple becomes a youthful, beardless Luke, himself the future author and Gospeler of that pilgrim tale, while the first was the older and bearded Cleophas. Luke's text speaks of these two whose "oculi autem illorum tenebantur, ne eum agnoscerunt" [But their eyes were holden that they should not know him] (24.16), as they walked together telling pilgrim tales, "dum fabularentur" [while fabling] (24.15). Cleophas says to the unrecognized Jesus: "Tu solus peregrinus es in Jerusalem, et non cognovisti quae facta sunt in illa his diebus?" [Art thou only a stranger in Jerusalem and hast not known the things which are come to pass there in these days?] (24.18). Jesus, in pilgrim disguise in medieval depictions of this scene, answers: "O stulti et tardi corde ad credendum in omnibus quae locuti sunt prophetae?" [O fools and slow of heart to believe all that the prophets have spoken] (25). And he begins by telling them of Exodus, the tale of Moses and his wilderness pilgrimage, as a prophecy concerning himself. Then the recognition scene occurs in the blessing and breaking of bread at the inn. This is dramatic irony; it is related to the riddle and the ambages. Perceptions are reversed. Tricks are played upon the personae and the readers.
The Emmaus tale is encountered twice in the Vita Nuova, and the first time it is presented it is misread, misunderstood, and unrecognized. It is presented in the ninth section of the work. The Vita Nuova calls great attention to numerology and above all to that number, nine. The title of the work, in Latin, and repeated in rubrication at the opening of the text, puns upon "new" and "nine," in contra-distinction to the oldness of eight, the octagonal font, the pagan Emperor Octavian/Augustus who saw at Ara Coeli a vision of the Virgin and Child; these two numbers, eight and nine, then become, in medieval numerology, the numbers of conversion. Augustine similarly had had his conversion occur in the eighth book of the Confessions, his baptism into the new life in the ninth. Beatrice is equated with "nine" (XXXVIII- XXXIX). Dante is here drawing attention to his code and to the means by which it can be cracked.
In that chapter Dante has gone away from Florence (just as Luke and Cleophas were journeying away from Jerusalem), when on the road he meets Amore disguised as a pilgrim: "E però lo dolcissimo segnore . . . ne la mia immaginazione apparve come peregrino leggeramente vestito e di vili drappi" [And therefore the most sweet lord . . . in my mind appeared like a pilgrim lightly clad and with shabby garb]. Dante is, for a pilgrim, improperly on horseback: "Cavalcando l'altr'ier per un cammino" [Riding out the other day along a road]; the pilgrim Amore is correctly on foot, and probably barefoot. (John Donne will play with that paradox in his "Good Friday Riding Westward" four centuries after.)
There is a further relation to the Emmaus paradigm than might be apparent to a modern reader. The monastic liturgical dramas not only made use of Psalm 113 in the Easter Monday and Tuesday performances of the Officium Peregrinorum; they also prefaced that play with a hymn, "Jesu, Amor et Desiderium" [Jesus, Love and Desire].13 Also, the pilgrimage to Rome, if ROMA was spelled backwards, was to AMOR, Love. For these reasons many uses of the Emmaus paradigm in medieval texts yoked the erotic to the Christological, including Tristan's encounter with two Venetian pilgrims on the shores of Tintagel, upon his pilgrimage not to Christ but to Isolde, and Petrarch's pilgrimage to Laura, Chaucer's Troilus' failed tryst to Criseyde, Shakespeare's Romeo's pilgrimage to Juliet.14 Partly what lies behind the medieval game with pilgrimage, which can and should be chaste, but which is mocked as being of lust, is the statement in I Peter 2.11: "Dearly beloved, I beseech you as strangers and pilgrims, abstain from fleshly lusts, which war against the soul." Prohibitions give rise to mocking misrule, to satirical saturnalia. Dante, in the razio to his poem, stresses the Emmaus-like sudden disappearance of Amore. But the appearance of his Amore, at this stage of the work, is more that of Cupid than that of Christ. The Christological references are deliberately kept cloudy and unclear at this stage of the pilgrimage of the Vita Nuova, both for its Luke-like persona, who is foolish and slow to believe, and for its reader who mirrors him.
The other half of this tally comes in Vita Nuova XL with the sonnet's lines:
Deh peregrini che pensosi andate,Its commentary goes on to speak of pilgrims journeying from Florence to Rome to see "quella imagine benedetta la quale Iesu Cristo lasciò a noi per essemplo de la sua bellissima figura" [that blessed image that Jesus Christ has left for us as a pattern of his most beautiful face]. It is generally assumed that this is the Veronica veil shown each Easter Friday to pilgrims at St. Peter's. But an investigation of pilgrimage practices in Rome in the thirteenth century indicates instead that this is the face of Christ in the apse mosaic of St. John Lateran which was said to have floated miraculously into the basilica through the golden door.16 To view this face, the Santo Volto, gave the pilgrim, even in the thirteenth century, a most valuable indulgence. The Lateran, then, was of far greater importance and sanctity than was the Vatican. In Vita Nuova IX that Christ imaging was obscure; in Vita Nuova XL it is revealed, the Pilgrim's Progress of the work deliberately being that of I Corinthians 13.12: "Videmus nunc per speculum in aenigmate, tunc autem facie ad faciem; nunc cognosco ex parte, tunc autem cognoscam sicut et cognitus sum" [For now we see through a glass darkly, but then face to face: now I know in part; but then shall I know even as I am known].17
forse di cosa che non v'è presente,
venite voi da sì lontana gente,
com'a la vista voi ne dimostrate,
che non piangete quando voi passate
per lo suo mezzo la città dolente,
come quelle persone che neente
par che 'ntendesser la sua gravitate?[O pilgrims, meditating as you go, On matters it may be, not near at hand, Have you then journeyed from so far a land, As from your aspect one may plainly know, That in the sorrowing city's midst you show No sign of grief, but onward tearless wend, Like people who, it seems, can understand No part of all its grievous weight of woe?15]
Coupled with this pilgrimage towards Rome Dante gives us a most careful definition of the various kinds of pilgrims according to their geographic goals:
. . . chiamansi palmieri in quanto vanno oltremare, là onde molte volte recano la palma; chiamansi peregrini in quanto vanno a la casa di Galizia, però che la sepultura di sa' Iacopo fue più lontana de la sua patria che c'alcuno altro apostolo; chiamansi romei in quanto vanno a Roma, là ove questi cu'io chiamo peregrini andavano.But Dante is implying that his own city, through which these pilgrims are traveling, is another pilgrim city. In quoting Jeremiah: "Quomodo sedet sola civitas" [How doth the city sit solitary], he is drawing an analogy between Florence and Jerusalem; the one city for the loss of Beatrice mirroring that other city for the death of Christ, in the manner of Christ's seeing prophecies concerning himself in the Old Testament as fulfilled in the New. Dante is thus drawing Florence into the Emmaus paradigm twice over, the first time obscurely, the second time with clarity. E. H. Gombrich spoke, in Art and Illusion, of this capacity to substitute one city for another, in art, and in printing; so also did Emile Mâle.[They are called Palmers who go overseas, where they often bring back the palm; they are called Pilgrims who go to the shrine in Galicia, for the tomb of St. James is the farthest from his homeland than is that of any other apostle; they are called Roamers who go to Rome, where those whom I call Pilgrims were going].
II. The Exodus Paradigm
Dante makes use of the Stations of the Exodus as a book of memory, a theatre of memory, a pilgrimage of memory, for the mnemonic cryptography of the Vita Nuova, a system of categories for his forty-two divisions to the work, having it become both a concealed Old Testament pilgrimage in the Wilderness and a to-be-revealed New Testament one, to both of which he gives a New Life, a vita nuova.19 I shall first discuss the general patterns and then the specific one of Numbers 33's Stations of the Exodus, which correspond, John V. Fleming once remarked, to Dante's divisions of the Vita Nuova.20 Medieval culture, we know, delighted in such numerological paradigms.21 There would also be some awareness of the names of the forty-two stations' Hebrew names and their meanings as words, as being as well letters as numbers, thus giving us Italian, Latin, Greek, and Hebrew, a pilgrimage consonance of the languages of the Book.
The Exodus is a story of liberation, of paideia, the Bildungsroman of Israel, and Dante will carefully define it as such in the Letter to Can Grande. It was a historical event, but it was also defined in literary terms by Augustine and others. We recall that Augustine had argued that it was permissable to use pagan poetry in Christian sermons because God had told the Israelites to borrow Egyptian gold and take it with them in the Wilderness (Exodus 12.35).22 That gold was first used to fashion the Golden Calf, when the Israelites came to Aaron, saying "Up, make us gods" (32.1). In so doing, the Israelites had broken the commandment against idolatry, against graven images. In their dancing naked about the Golden Calf they were also breaking the commandment against adultery, against lust. They were most severely punished for these acts. The same Egyptian gold was then used for the adorning of the Ark which housed the Law with these Commandments against idolatry and adultery among the others. Paul had preached a sermon to the pagan Athenians on the Areopagus and had used in that Christian sermon quotations from Greek tragic poetry (Acts 17). The Church Fathers used these two episodes to argue that pagan material, like Egyptian gold, like Greek poetry, could be used for Christian purposes. Thus the Exodus was seen both as a historical liberation, and also as an allegory about poetry and its doubleness. Dante will thus make use of Beatrice as Golden Calf and as Tabernacle of the Ark. She represents both poetry and theology, lust and charity.
The Middle Ages and its cathedrals and summae took most seriously the scriptural statement that God had created the world in number, weight and measure: "omnia in mensura et numero et pondere disposuisti" (Wisdom of Solomon 11.20). Christ's age at the Crucifixion was thirty-three. The book of Numbers, for its thirty-third chapter, proceeds to list the forty-two Stations of the Exodus. Those forty-two stations were of great importance both in the Hebraic world and in the Christian one. They were traveled by pilgrims. In imitation of them pilgrimage stations were established among the churches in Rome, including the seven major basilicae. In imitation of both of these, twelve pilgrimage stations were eventually established in Jerusalem, by the Franciscans, to mark the twelve events concerning the Crucifixion, the Stations of the Cross. The listing from Numbers 33 was discussed, with the meanings of the Hebrew names, from Jerome and Bede, in pilgrim guidebooks and in the Glossa Ordinaria.23 It functioned like gematria, where letters are numbers and vice versa, the numbers and names here, rather than just the letters, being consonant in an intertextuality of time and space upon the World as Book written by God. For Dante it may have become such a system as Umberto Eco was later to have his Name of the Rose library use, there based upon the Apocalypse: here, by Dante, for the Vita Nuova, upon Numbers 33.
It would be wise to discuss two of the pilgrim accounts side by side with Dante's cryptographic text. One such account, Anonymous Pilgrim VI (Pseudo-Beda), is of the twelfth century; the other, Fetellus, is of the thirteenth century and thus likely more corrupt. One is uncertain what account Dante actually may have himself used. Available to him could also have been Jerome's listing and translation, which is repeated in the Glossa Ordinaria. The Glossa text is especially interesting as it conflates Old and New Testament meanings together, seeing all the events in Numbers 33 in relation to Christ. John Demaray also notes Paolo Amaducci's La fonte della Divina commedia which sought to parallel Peter Damian's De Quadragesima, et quadraginta duabus Hebraeorum mansionibus to that text in its entirety in a far-fetched manner.24 To my knowledge no attempt has been made to apply the forty-two Stations of the Exodus carefully to the Vita Nuova as a map, a subtext, or palimpsest to it.
There is a certain amount of confusion between these pilgrimage accounts and those of Numbers 33 but they all make cryptographic, structural sense of the Vita Nuova, as if a version of one of them had been at Dante's elbow as he wrote that text. One should, perhaps, quest for likely manuscripts in Florentine libraries that Dante could have used. What we shall see is that in some cases there is a very exact parallel, in others not so; as if Dante had used the Exodus Stations as a rough outline for his own work, much as frescoes of pilgrimage at Tavant were first sketched in with sanguine, then covered over, that covering now being lost and revealing the original sanguine cartoons. Some editions of the Vita Nuova change the numbering from forty-two to forty-three chapters, but not many do so.
The Victorian editor of Fetellus, James Rose MacPherson, noted of that text: "At this point he introduces a long statement as to the route of the Exodus, in which he mentions some remarkable legends, and gives many strange interpretations of the names of the stations in the Desert of the Wanderings. These explanations are at times altogether ludicrous, but not more so than was general up to a comparatively recent period."25 One must admit that the credulous tone of the accounts strikes a modern reader as odd. We, today, are nominalists. Umberto Eco's system is only accidentally consonant with the events that transpire in his medieval detective novel Il nome della rosa, though he designed them. But the early medieval mind believed that names, places, and their meanings, their etymologies, were designed, created, by God. It is that spirit which informs these accounts.
John Demaray, in order to write The Invention of Dante's Commedia, actually traveled the Exodus route, visiting the Monastery of St. Catherine at Mount Sinai. He applies the Exodus Stations to the Commedia, but not to the Vita Nuova.26 He found that pilgrim guides were still repeating these formulae orally almost verbatim as they are also given in medieval pilgrim guidebooks.27 There is an intense retention and conservatism about a landscape upon which pilgrimages are performed, where the World and the Book, as Singleton has shown in his Essay on the Vita Nuova, become one. There is, in fact, a magnificent icon at St. Catherine's Monastery of Christ with the Book, in which one senses that he is analogously also Moses with the Law, and that the Book contains Numbers 33 as well as Luke 24.28 This is Dante's "libro de la mia memoria," his book of memory.
Let us turn to the Vita Nuova's text and examine it with the pilgrim palimpsests of Numbers 33 at our elbow, using that as a code book for the cryptography of the work and see what occurs. Dante begins by noting that his own palimpsest begins with "una rubrica la quale dice: Incipit vita nova" [a rubricated line which states: "Here begins the New Life"]. In the Latin Vulgate the Red Sea is the "mare Rubrum." Psalm 113, used at the Easter baptism, mentions it. The Red Sea's crossing and baptism were seen as analogous by the Church. This first section of the Vita Nuova represents the beginning of Dante's Exodus-like pilgrimage from Egypt to Israel, from confusion to clarity, from birth through life to salvation, a pilgrimage he can make after first "spoiling the Egyptians." Pseudo-Beda gives us the date of the beginning of Numbers 33 as the second day after Easter, the liturgical date for the reading of the Gospel account of the Doubting of Thomas, an episode often included in the Easter Monday and also Tuesday Officium Peregrinorum. In that drama Christ tells Thomas that he has seen him but not believed. All these aspects can be found echoed in Dante's text.
The second station is that of Succoth, of the Tabernacle. In Exodus and elsewhere we are told that the predominant color of the Tabernacle of the Ark is red, crimson, scarlet. This is the garb of Beatrice: "Apparve vestita di nobilissimo colore, umile ed onesto, sanguigno." The Tabernacle of the Ark was to be housed in the Holy of Holies, the Sancta Sanctorum, within the Jerusalem Temple. Dante here says that "lo quale dimore ne la secretissima camera de lo cuore" [which dwells in the inmost depths, the most secret room, of the heart]. What is interesting here is that Beatrice is associated with Miriam, Mary, and Christ; and the Exodus Vulgate account gives Miriam's name as Mary, and the Apocrypha tells the story of the Virgin spinning and weaving the red cloth for the Temple's curtains, being herself the Arca Dei, the Ark of God.29 Dante's roles here become that of Moses before the burning bush, that of Aaron permitted to enter the Holy of Holies but once a year. Thus the "Egyptian gold" of Homer is particularly apt: "Ella non parea figliuola d'uomo mortale, ma di deo" [She appeared not as the daughter of a mortal but of God]. Bernard had spoken of the Virgin Mary as the "daughter of her son," and Dante was to repeat that paradox (Paradiso XXXIII.1-36). In this system neither character nor gender need remain fixed; the palimpsest can vary the dramatis personae. Here Dante responds to the sight of Beatrice as did Moses to the sight of God. Medieval iconography associated Moses' sight of God in the burning bush as analogous to Augustus/Octavius' vision of the Virgin and Child. The icon at St. Catherine's Monastery may give us God and Moses mirroring each other. The Glossa Ordinaria emphatically relates Moses to Christ: "Moses, id est Christus."
The third station, Etham, is that of the pillar of cloud and fire, of "bravery," "perfection," and "solitude." Here Dante meets the miraculous Beatrice first garbed in white. Then Love presents her to him in a vision of "una nebula di colore di fuoco" [in a cloud the color of fire], wrapped in a crimson cloth, "uno drappo sanguigno." At first Dante is afraid, faint hearted, and so also is Beatrice timid and terrified, rather than either being brave. In order to achieve this vision, in which he is told "Ego dominus tuus" [I am your lord], he has withdrawn to the solitude of his room. The correspondences to these sections are again quite clear.
The fourth place is Phaihiroth, the place where reeds grow, and here Dante becomes so weak and frail, "di sì fraile e debole condizione," that his friends are greatly concerned. He is as "frail as a reed." The fifth station is of Marah, meaning "bitterness," but also associated punningly with "Mary." Dante here speaks of basking in the sight of the Queen of Glory, "la regina de la gloria," an epithet usually reserved for the Virgin Mary, but here, quite clearly, used of Beatrice. The sixth is the station of Helim, noted for its twelve fountains and seventy palm trees. I wonder if there are manuscripts that speak of "settanta," rather than of "sessanta" ladies, seventy rather than sixty ladies to whom he writes his serventese. The seventh station is of the journey that the Israelites make passing by the windings of the Red Sea shore. Dante speaks of traveling twice here, in his vernacular sonnet, "O voi che per la via d'Amor passate,/attendete e guardate/s'elli è dolore alcun, quanto'l mio, grave" [O you who on the road of Love pass by, Attend and see If any grief there be as heavy as mine]30, which in turn is echoed in, or rather echoes, the words of Jeremiah given in ponderous Latin: "O vos omnes qui transitis per viam, attendite et videte si est dolor sicut dolor meus" [All ye that pass by, behold, and see if there be any sorrow like unto my sorrow]. These words are frequently engraved beneath Crucifixes. But Dante is employing religious language blasphemously, in a Bakhtinian manner, for the uses, here, of lust, rather than charity.
The eighth station, of the desert of Sim, means "bramble" and "hatred." In this chapter, Dante mourns the death of a young and very beautiful lady, and reviles death as his enemy whom he curses: "Morte villana, di pietà nemica/ . . . di te blasmar la lingua s'affatica" [Villanous death, the enemy of pity . . . Cursing you wearies my tongue]. The ninth station of Dephca, meaning "knocking" or "pulsating," can only achieve that through the sound of the horse's hooves in "Cavalcando" [Riding out the other day]. In other accounts it also has the meaning of "salus," "health," and "salvation." Amore appears to Dante as they both journey beside a beautiful river. Later we come to realize that Amore is also Christ, "salus noster." The next station, the tenth, is Alus, signifying "discontent," and it describes Dante's unhappiness at being denied Beatrice's salutation. It was here that the Israelites complained about their hunger and were given quail and manna.
The eleventh station, Raphidim, or "desolation of the brave," is where the Israelites falsely worship the idol of the Golden Calf. Dante, here, goes to pay homage to Beatrice and feels his heart burning within him (that Emmaus yoking of cupidity and charity) at seeing her. The text takes Dante's two different perceptions of Beatrice, with lust, with love, and has one and the same woman represent for him, first the Golden Calf, fashioned out of the spoils of the Egyptians, and then the Tabernacle of the Ark, fashioned from the same gold and silver borrowed from the Egyptians. She is the wife of another, he, an adulterer, desiring to break the Mosaic Commandments. We are used to reading the Vita Nuova in the context of "Courtly Love," not realizing that that was a nineteenth-century misreading of Andreas Capellanus' De arte honeste amandi, then read romantically, not with the irony its author presented. It is a question of perspective, of which parts of the texts to read, just one layer, or its doubleness. D. W. Robertson has demonstrated this quality in his "Doctrine of Charity in Medieval Literary Gardens," a work of literary criticism that examines the doubleness of medieval texts within their cultural contexts. We know, from Pietro Alighieri's commentary to his father's magnum opus that Dante owned a copy of Capellanus and read that text ironically.31 Dante here describes himself as ponderous and overborne, by Love, although he pretends to welcome this intolerable situation.
The twelfth station is the Wilderness of Sinai, where Moses returned from the mountain to his people with the tables of the Law, and where the Tabernacle was made after the Golden Calf was destroyed. Dante speaks of "returning" to his subject in this chapter, and of withdrawing to a solitary place to weep because of Beatrice's denial to him of her salutation. A young man in the whitest of garments comes to him, telling him to cast aside all his idols: "Fili mi, tempus est ut pretermictantur simulacra nostra" [My son, it is time to put away our graven images]. The word "simulacra" is also stressed in Psalm 113. Dante has made of Beatrice, or of his poetry concerning her, such a simulacra, such an idol, such a Golden Calf, when she is actually an icon, an ark, an imago of blessedness. Dante-persona has confused signifier and signified and thus become an idolator. Love then tells Dante that he is suffering from a Boethian loss of perspective: "Ego tamquam centrum circuli, cui simili modo se habent circumferentiae partes: tu autem non sic." I shall deliberately leave that line untranslated in order to preserve its hermeneutic quality, its aspect of privilege, its closed circle intact and unbroken.
The thirteenth station, the "sepulchres of cupidity," where the Israelites yearned for the fleshpots of Egypt, has Dante writing love poetry, not knowing which direction to take and craving pity from his lady, whom he says he speaks of as if in a scornful way. Dante is making himself like one of those rebellious Egypt-loving Israelites, who resented Moses' lordship over them, the pilgrimage they had to make through the Wilderness, and the manna and quail with which they were fed. The fourteenth station, of Asseroth, is where Aaron and Miriam expressed disapproval of Moses' marriage. In this chapter Dante attends a wedding at which Beatrice is also present. At that marriage of Moses to the Ethiopian king's daughter, the Lord punishes Miriam with leprosy. The name of this station is said to mean "offense." In this scene we witness Dante suddenly afflicted with illness, as if playing the role of Miriam, while Beatrice assumes that of Moses towards him. Aaron in Numbers 12 then has to lead Miriam out of the camp and away from the Tabernacle for a space of time. Dante is led forth from the gathering at which Beatrice is present, a friend here functioning like Aaron.
Station fifteen, Rethma, does not correspond very exactly with Vita Nuova XV, though it does continue with references to Dante's nearly fatal illness, as if to relate this to Miriam's disease. The next station, Remonphares, means the "division of the pomegranate." Aaron's robe was embroidered with pomegranates and bells; Robert Browning picked up that allusion, as if to his own poems, in Bells and Pomegranates. Is Dante here referring to the divisions of his Aaron-like poems with which he celebrates and worships at the Ark that is Beatrice after an initial fabricating of her as his Golden Calf? If so, his role as Aaron the fabricator of Beatrice as a Golden Calf idol to be falsely worshiped, is as equally rudely shattered by God and by Beatrice, his Moses, who proceeds to write his tale in a reverse manner through her Christ-like death, thus shaping the Vita Nuova literally into the new life, into Newness rather than Oldness. The text usurps its poet.
In the seventeenth chapter, Dante writes of finding a new theme for his poetry, speaking no longer of himself (in that self-pitying manner Boethius had used, yet mocked, as after him had the writers of sonnets down the ages), but of more noble concerns. This station, Lebna, is interpreted as "whitening." The eighteenth station, Rechsa, means "bridle," which Dante shows us with his self-conscious, self-referential writing block bridling his craft: "Reflecting deeply on this, it seemed to me that I had undertaken too lofty a theme for my powers, so much so that I was afraid to enter upon it; and so I remained for several days desiring to write and afraid to begin."32 The nineteenth station, Celata, means "assembly," or "church," and also "beginning" in some sources. Dante speaks of beginning to write, and what he writes is a sonnet addressed to an assembly of ladies who know by insight what love is. The twentieth station, Mount Sepher, is of "beauty" or "Christ." Three times Vita Nuova XX speaks of beauty and in its conclusion of an "omo valente," a man of worth.
Station twenty-one, Araba, means "miracle," and here we are told at the beginning of Beatrice miraculously working to bring the lover into existence from his potentiality, and it concludes by speaking of her miraculous smile, in the Italian, "mirabile." The twenty-second station, Maceloth, is, again, "assembly" or "church" and in Vita Nuova XXII we hear of ladies assembled to be with Beatrice while she mourns the death of her father. Station twenty-three, Taath, means "fear," and in Vita Nuova XXIII we witness Dante's terror at his illness and his belief that he is going to die, followed by his dream of Beatrice's Christ-like death at which the sun and stars are eclipsed and the birds flying through the air fall dead to the ground which is shaking with earthquakes. Another meaning for this station is "patience." Throughout this section references are made both to fear and to comfort, "paura" and consolation.
The twenty-fourth station, Thare, means "pasture." The very beautiful twenty-fourth chapter of the Vita Nuova, in which Dante has Beatrice be preceded by his friend's lady, Guido Cavalcanti's Giovanna, does not seem to have much reference to the Exodus structuring, unless it be to the iconography of St. John the Baptist, "Ego vox clamantis in deserto: parate viam domini," as a shepherd pasturing sheep, "Ecce agnus dei." The twenty-fifth, Methca, is of sweetness, and here again we find ourselves in the world of Guido Cavalcanti and his poetic circle of the "sweet new style," the dolce stil nuovo. (Guido's teacher had likewise been Brunetto Latino.) The twenty-sixth station, Hesmona, is said to mean hastening, and in Vita Nuova XXVI we learn of people running to see Beatrice as she walked down the street, "le persone correano per vedere lei."
The twenty-seventh station, Asseroch, means "bonds," "discipline." Here Dante speaks of being held in bondage to Love. The twenty-eighth is of the "children of need." Here we see a Florence widowed of her Beatrice, the city left orphaned and in need. Twenty-nine, Gadgad, means "messenger," "girding," "circumcision." In this chapter Dante relates the concept of Beatrice as a nine to astronomy according to both pagan Ptolemy and to Christian doctrine; an astronomy that makes use of spheres within spheres, wheels within wheels. Thirty, Gabatath, is of "goodness" and "Christ." Dante once more quotes from Jeremiah on Jerusalem as left widowed without Christ and also speaks of his friendship with Cavalcanti and of their desire to write in the vernacular (the sweet new style, the dolce stil nuovo) rather than in Latin. For this reason, Dante says, he cannot give the other Latin prophecies concerning Christ.
The thirty-first station, Hebron, means "passing." Here Dante speaks of Beatrice's passing, "Ita n'è Beatrice," and of his sorrow. The thirty-second station, Asiongaber, means men's counsel. Here Beatrice's brother asks Dante to write a sonnet for them both, seeking consolation for her death from their friends. In thirty-three, Cades, Miriam dies and is buried, to be followed at the next station by her brother Aaron's death. In Vita Nuova XXXIII we learn of Dante speaking with his other great friend, Beatrice's brother, and composing a poem to be spoken by both her brother and by himself as her servant and worshiper. In the Glossa to Numbers 33 Aaron and in Vita Nuova XXXIII Beatrice's brother are spoken of as weeping. In thirty-four Aaron dies on Mount Hor and his tomb is not found, while God and his angels have charge over him. In Vita Nuova XXXIV Dante is drawing pictures of angels. (There is a splendid and most self-referential Dante Gabriel Rossetti painting of that scene in Oxford's Ashmolean Museum.) It is the anniversary of Beatrice's death.
Dante Gabriel Rossetti, Dante painting Angels, Ashmolean Museum. We should be very grateful for a fine copy of this painting to hang in the Casa di Dante in Florence. Dante Gabriel Rossetti's father taught Dante at the University of London, lived in political exile from Italy.
The thirty-fifth station is Selmona in some accounts, Obeth in others, that latter having for meaning "prophetess." Here Dante sees the woman looking at him from a window who comprehends his state. The thirty-sixth is of Fynon, where the Israelites again complained about food and where serpents bit them. The thirty-seventh is again Obeth and is again about this lady. These stations, from the thirty-fifth to the thirty-eighth, no longer make sense. But with thirty-nine, once again, the consonance is clear, Dybongad meaning "temptation of eyes," "shutting up," and "confusion." Dante here speaks of his shame at his eyes and their diseased state. His previous vision of her first appearance to him is now, at the ninth hour, repeated and he is filled with shame at the ways in which he has misinterpreted her, misreading her Exodus map as it were into an Egyptian-backsliding direction rather than the one of the Jerusalem pilgrimage.
The next station is of "shame in the streets." Here Dante sees the pilgrims who journey towards Rome walking down Florentine streets; the Exodus pattern here intersects with the Emmaus one in this fugue. The forty-first station is Mount Abarim, the "mount of those who pass away," where Moses died, without physically reaching the Promised Land. Here Dante speaks of Beatrice's spiritual pilgrimage into the heavens. The next station is Mount Moab, near Jericho by the Jordan river, meaning "cut off," and Galgala, meaning "revelation." This is where Dante ends his Vita Nuova, cutting it off with the revelation of Beatrice in heaven contemplating the Santo Volto, the holy face of God, in whose image she is, and whose icon now, rather than idol, can be reflected in Dante's own Book of Memory, the pilgrim map of both Exodus and Emmaus, given by analogues of Aaron and Moses, Luke and Christ, in both writer and reader.
These Exodus and Emmaus paradigms, though they are by no means the whole of the Vita Nuova, are certainly part of Dante's crisscross blueprint for his work. Medieval texts often self-reflectively embedded within themselves their critical theory. Dante did this. Chaucer also did so. Modern critical theorists now often only discuss theory, without reference to literary texts. Dante, in the Vita Nuova, tells of his friendship for Guido Cavalcanti and of their intention of writing in the vernacular in the dolce stil nuovo. Those landscapes of pilgrimage, in Dante's days, were envisioned as being of the Saracens' culture. To map them into a Florentine text was to reconcile the Peoples of the Book, Judaism, Christendom, and Islam.
We know of the charming Eastertide sonnet which Dante probably wrote to Brunetto Latino, his teacher and Guido's, who had taught both of them Averroistic texts acquired in Spain, to accompany his gift of the Vita Nuova to Brunetto. Another sonnet, mourning Brunetto's death, speaks of a pilgrimage in the wilderness.33 Brunetto himself had written a pilgrimage work, Il Tesoretto, modeled on Boethius, Alanus ab Insulis, and the Roman de la Rose, in which Latino described himself learning of his exile from Florence in 1260 while in the pilgrimage Pass of Roncesvalles. Deeply sorrowing he then loses his way, taking his path through a different wood, and coming into a dream landscape in which he is taught morals and ethics by Ovid, Ptolemy, and a host of others. Latino, like his two famous students, insisted on writing in the vernacular, and translated Aristotle, Ptolemy, and Cicero into French and Italian for the benefit of his students. He had happened to be in the Pass of Roncesvalles because he was on his way home from the court of Alfonso el Sabio (whose father's title had been the King of the Three Religions). There Brunetto had acquired much knowledge and Arabic learning concerning Ptolemy and Aristotle. He already knew Cicero. He would have learned also of Alfonso's own writings. In Alfonso's legal treatise, Las Siete Partidas, is a definition of the pilgrim that will be echoed by that of Dante in the Vita Nuova; and then again by Cesare Ripa in the Nova Iconologia.
Dante is thus part of a world that knows of the cultures of all three Peoples of the Book, the Judeo-Christian and the Islamic, into which can also be interjected the learning of the Greco-Roman world. All these cultures prized education and they learned from each other pluralistically. All these cultures also prized pilgrimage, the Christian pilgrimage to St. James of Compostela answering that of the Muslims to Cordova and Mecca, mirroring that of Israelites journeying to Jerusalem.
Nor will the Vita Nuova be Dante's last attempt at a pilgrimage work. It is his schoolroom exercise, his apprentice work.34 Dante's Vita Nuova has about it as great a sense of Brunetto Latino's teaching presence as does Joyce's Portrait of the Artist as a Young Man convey John Henry Newman's educational and pluralistic concepts. Both Dante and Joyce rebel against, yet make great use of, their pedagogues' teachings. Joyce in his work plays similar cryptographic and intertextual games, having his text refer to Augustine's Confessions (his middle name was Augustine, therefore the confession is at the middle of the book) and to Newman's Apologia pro vita sua (Stephen at the beginning must apologize, ordered to do so by his mother, with his aunt Dante then chanting a child's song about this.)
The Commedia, following upon the Vita Nuova, will also use the paradigm of Exodus and Emmaus. These are parts of the patterns in the carpet of Dante's work. In them Dante is as a new Aaron who becomes a Moses, a new Cleophas who becomes a Luke, journeying from an earthly Florence that is also an Egypt to a heavenly Rome that is also a Jerusalem. Both the geography and allegory of pilgrimage underlie these books based upon the Book of God's Word and the Book of God's World. Dante creates in the secular and profane vernacular an intertextuality with the sacred and divine Latin, Greek, and Hebrew texts of the Bible, with both Luke 24's code to the Gospels and Numbers 33's code to the Exodus. (Those codes spoke more prophetically than he knew. He would literally become the exile of his pilgrim definition of Vita Nuova XI.) Dante employs both pilgrimage codes, of Exodus and of Emmaus, from which to construct the Janus hermeneutic, the ambages pulcerrima, of his New Life, written in the "sweet new style," the dolce stil nuovo, of Gothic Florentine at war with Rome and the Romanesque.
Notes
1 Originally
published in Dante Studies, 103 (1985), 103-124. It was
John V. Fleming at Princeton University who once mentioned to
me the importance of the 42 chapters of the Vita nova
and the 42 Stations of Exodus from Numbers 33.
2 Dante
Alighieri, La Vita Nuova, trans. Barbara Reynolds
(Harmondsworth: Penguin, 1969), p. 11.
3 Charles S.
Singleton, An Essay on the Vita Nuova (Cambridge,
Mass.: Harvard UP, 1949), pp 25-54.
4 Michel
Foucault, The Archeology of Knowledge and The Discourse on
Language (New York: Pantheon, 1982); Fredric Jameson,
"Metacommentary," PMLA, 86 (1971), 9-17.
5 Erwin Panofsky,
Early Netherlandish Painting: Its Origin and Character
(New York: Harper and Row, 1971), I.131-148.
6 Erich Auerbach,
"Figura," in Scenes from the Drama of European Literature,
trans. Ralph Manheim (New York: Meridian, 1959), pp. 11-76;
"Metacommentary," pp. 9-10.
7 Dante's sonnet
to Brunetto Latino, accompanying his Easter gift to him of the
manuscript of the Vita Nuova, as translated by Dante
Gabriel Rossetti, Dante and his Circle with the Italian
Poets Preceding Him (London: Ellis and Elvey, 1892), p.
96; discussed in Brunetto Latini, Il Tesoretto, ed.
and trans. Julia Bolton Holloway (New York: Garland, 1987), p.
xviii; Italian text in Raccolta di rime antiche toscane (Palermo:
Assenzio,
1817),
II.32:
Master Brunetto, this my little maid8 Stanley E. Fish, "Progress in The Pilgrim's Progress," in Self-Consuming Artifacts: The Experience of Seventeenth-Century Literature (Berkeley: University of California Press, 1972), pp. 224-64; Hans Robert Jauss, Toward an Aesthetic of Reception, trans. Timothy Bahti (Minneapolis: University of Minnesota Press, 1982).
Is come to spend her Easter-tide with you;
Not that she reckons feasting as her due,-
Whose need is hardly to be fed, but read.
Not in a hurry can her sense be weigh'd.
Nor mid the jests of any noisy crew:
Ah! and she wants a little coaxing too
Before she'll get into another's head.
But if you do not find her meaning clear,
You've many Brother Alberts hard at hand,
Whose wisdom will respond to any call.
Consult with them and do not laugh at her;
And if she still is hard to understand,
Apply to Master Janus last of all.
I will arise and go now, manteled,34 Lawrence Lipking, The Life of the Poet: Beginning and Ending Poetic Careers (Chicago: University of Chicago Press, 1981), pp. 20-34, who says similarly of Blake's Marriage of Heaven and Hell, p. 18, that it "contains whole libraries . . . a parody bible . . . it offers a complete sacred code in fiercely concentrated form."
As I journey, like a pilgrim,
Until I find a forest wilderness.
I wish to change wine into water,
My delicate bread to acorns, and
To weep evening, night, and morning.
Bibliography
Charles S. Singleton. An Essay on the Vita Nuova.
Baltimore: The Johns Hopkins University Press, 1949,1977.
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