La regina Victoria, India e Firenze - Domenico Savini
La regina Vittoria imperatrice dell’India - Gabriella
Del Lungo Camiciotti, Università di Firenze
Introduzione
Alla fine dell’Ottocento motivi economici, politici e religiosi
mossero le nazioni europee a espandere la loro influenza su
altre regioni, ciascuna nell’intento di accrescere il proprio
potere sulla terra. L’impero britannico si estesero aldilà del
mare perché la rivoluzione industriale dell’Ottocento aveva
creato il bisogno di risorse naturali necessarie a far
funzionare i macchinari e i mezzi di trasporto
appena inventati. In questo periodo l’India, che era già sotto
il controllo della corona dal 1858, acquisì status
imperiale nell’intento di collegarla più strettamente al suo
centro metropolitano, Londra.
Un atto parlamentare riguardante i titoli reali (Royal Titles
Bill) fu presentato in parlamento nel 1876, e nel 1877 Benjamin
Disraeli, primo ministro conservatore, fece proclamare la regina
Vittoria imperatrice dell’India. La regina Vittoria aprì il
parlamento in persona per la prima volta dopo la morte del
principe Alberto, per annunciare il cambio di titolo reale. A
Dehli, in ciò che è conosciuto come il Dehli Dunbar (corte di
Dehli), il 1 gennaio 1877 si tennero fastose celebrazioni sotto
la guida del viceré Lord Lytton.
Questo evento inaugurò il periodo del nuovo imperialismo in Gran
Bretagna, ideologia che fu disseminata tramite un gran numero di
agenzie propagandistiche imperiali fondate nel tardo Ottocento e
ai primi del Novecento; queste diffondevano una visione del
mondo in buona parte basata su un rinnovato militarismo, la
devozione verso la regalità, e l’identificazione con e la
venerazione di eroi nazionali, insieme al culto della
personalità e idee razziali associate con il darwinismo sociale.
Come osservato da MacKenzies (1990, pp. 2-3) l’influenza di
queste idee sulla cultura popolare fu profonda in quanto
penetrarono nel sistema educativo, nelle forze armate, nei
movimenti giovanili in uniforme, nelle chiese e società
missionarie, ed anche in forme di intrattenimento pubblico come
il music hall e le esposizioni. Neanche l'intellighenzia fu
immune dall’ imperialismo. Forse il più famoso
scrittore che contribuì a diffondere l’idea della
superiorità della civiltà bianca è Kipling che si fece
interprete, propagandista e principale apologeta
dell'élite imperialista. Un punto di vista meno darwiniano è
quello di Lytton Strachey, intellettuale membro del gruppo di
Bloomsbury, il quale dopo il successo del suo Vittoriani
Eminenti (Eminent Victorians,1918). pubblicò la biografia della
regina Vittoria (Queen Victoria) nel 1921.
La regina Vittoria
Come indicato da MacKenzies, la venerazione della monarchia si
sviluppò dalla fine degli anni 70 dell'Ottocento e quando ciò
avvenne lo fu in stretta unione con il ruolo imperiale del
monarca. La biografia della regina Vittoria di Strachey
contribuì a stabilizzare il ruolo del monarca come emblema
imperiale; Strachey presenta Vittoria come matriarca regale, dal
momento che questa considerava i sudditi imperiali come la sua
famiglia allargata, e mostra il suo particolare attaccamento
all’India. La regina Vittoria era infatti affascinata
dall’India. Come scrive Le Jeune (2017, p.1): «In tutta la sua
vita la monarca fu molto attiva nello scoprire l’India.
Cercava di entrare in contatto con il suo “popolo indiano” del
cui benessere si interessava regolarmente. Era curiosa di
ascoltare e leggere le testimonianze e le storie personali di
ufficiali inglesi o viaggiatori tornati di recente dall’India.
Divenne appassionata degli Indiani, particolarmente di coloro
che poteva incontrare in Inghilterra. Collezionava
oggetti, dipinti e schizzi che evocavano scene di vita del
subcontinente indiano. Più anziana cercò di riprodurre il
mondo orientale intorno a lei a Osborne House. Nel suo Raj
[Territori della Corona in India] cercò di difendere i nativi
dell’India dal duro dominio imperiale dei suoi ministri, per
affezione materna.»(mia traduzione)
Vittoria prendeva i suoi doveri di imperatrice con molta serietà
e quando arrivò il momento del suo giubileo, nel
1887, fece ogni sforzo per mettere in risalto il “gioiello
dell’Impero Britannico” come chiamava il Raj. Offrì banchetti
sontuosi non solo alla nobiltà europea ma anche per ai principi
indiani, e partecipò a elaborate processioni a cavallo scortata
dalla cavalleria coloniale indiana. Aggiunse anche inservienti
indiani alla famiglia reale per aiutare nei festeggiamenti.
Vittoria sviluppò una particolare simpatia per uno dei suoi
nuovi servitori, Abdul Karim. Ben presto ruolo di questi
cambiò: dal servire al tavolo all’insegnare alla regina a
leggere, scrivere e parlare in Urdu, o ‘Industani’. La regina
voleva conoscere tutto dell’India, un paese sul quale dominava
ma che non poté mai visitare. Abdul le raccontò tutto di Agra,
dai frutti e le spezie locali ai panorami e ai suoni della sua
patria. In breve egli divenne il suo ‘Munshi’, o
insegnante, e si iniziò un’amicizia che sarebbe durata più
di una decade.
La biografia della regina Vittoria
Nella sua biografia della regina Vittoria Strachey si
focalizza solo su uno dei tre elementi della propaganda
imperialista individuati da MacKenzie. Dopo che Vittoria
fu proclamata imperatrice dell’India, egli mostra come la
monarchia sia collegata all’imperialismo, e come Vittoria
incarni in modo particolarmente appropriato l’impero.
Lytton Strachey, La regina Vittoria, p. 330:
Naturalmente tutto il misticismo della costituzione inglese si
concentrava nella Corona, con la sua venerabile antichità, le
sue sacre rimembranze, le sue cerimonie imponenti e
spettacolose. Ma per quasi due secoli il buon senso aveva
predominato nel grande edificio e il piccolo cantuccio
inesplorato e inesplicabile aveva attratto ben poca attenzione
[riferimento a una zona della costituzione inglese che sfugge al
buon senso e ospita l’ elemento mistico]. Perché l’imperialismo
non è soltanto una questione d’affari, ma è anche una questione
di fede e col suo crescere crebbe anche il lato mistico della
vita pubblica inglese, e simultaneamente una nuova importanza
cominciò ad essere attribuita alla Corona. Il bisogno di
un simbolo della potenza inglese, del valore inglese,
dello straordinario e misterioso destino dell’Inghilterra,
cominciò a essere sentito più forte che mai. Quel simbolo
era rappresentato dalla Corona, e la corona posava sul capo di
Vittoria. Così avvenne che, mentre al termine del regno il
potere della sovrana era sensibilmente diminuito, il prestigio
della sovrana invece era enormemente cresciuto.
I Britannici certamente concepivano il loro impero
gerarchicamente, in termini razzisti di superiorità e
inferiorità, centro e periferia, ma, come indicato da Cannadine
(2001), oltre alla considerazione dell’India basata sulle
differenze, la percepivano anche come un territorio coloniale
dotato di somiglianze: vedevano le altre popolazioni composte di
individui che si potevano comparare sulla base di una
somiglianza di status; questo portò al riconoscimento di status
sociali uguali — i principi sono principi ovunque — e formò la
base dell’estremamente elaborato territorio coloniale
dell’India. Questo aspetto è presente anche nella biografia di
Strachey, nella quale Vittoria è presentata come un matriarca
che governa il suo popolo, sia britannico sia coloniale. Ciò è
solennemente ricordato da Strachey in occasione del giubileo,
che legittimò lo status imperiale nella relazione che univa la
corona ai principi governanti del subcontinente indiano, ora
integrati nei principi aristocratici britannici.
Lytton Strachey, La regina Vittoria, p. 307:
L’anno seguente era il cinquantesimo del suo regno e nel giugno
lo splendido anniversario fu celebrato con pompa solenne.
Vittoria, circondata dai supremi dignitari del regno, scortata
da uno scintillante corteo di re e di principi, passò attraverso
la folla entusiasta della capitale per recarsi a ringraziare Dio
nell’abbazia di Westminster. In quell’ora di trionfo le ultime
tracce residue delle vecchie antipatie e della vecchie discordie
furono interamente cancellate. La regina fu salutata a un tempo
come la madre del suo popolo e come il simbolo incarnato della
grandezza imperiale d’Inghilterra; ed ella corrispose a questo
duplice sentimento con tutto l’ardore del suo spirito. Ella
sapeva, ella sentiva che l’Inghilterra e il suo popolo erano,
per un prodigio meraviglioso e tuttavia semplicissimo, cosa sua.
Esultanza, affetto, gratitudine, un senso profondo di
riconoscenza, un orgoglio senza limiti: tali erano i suoi
sentimenti — ma sopra di essi vi era qualche altra cosa,
che dava colore e intensità a tutto il resto. Finalmente, dopo
tanto tempo, la felicità, per quanto frammentaria e carica di
gravità, ma tuttavia vera e indisconoscibile felicità, era
ritornata a lei. Questo insolito sentimento riempiva e
accendeva tutta la sua coscienza. Quando, ritornata a Buckingham
Palace dopo la fine della lunga cerimonia, le fu chiesto come si
sentiva: «Sono molto stanca, ma anche molto felice», rispose.
Strachey mostra anche la crescita del ruolo cerimoniale
dell’imperatrice. Con considerevole pompa si tennero esibizioni
indiane e coloniali, inaugurate da Vittoria. La regina Vittoria
divenne il perno del nuovo imperialismo, percepito in gran
Bretagna come un periodo di sicurezza e prosperità. Per le
celebrazioni del 1887 e 1897 vennero a Londra primi ministri
coloniali e principi indiani, accompagnati da truppe e
seguaci esotici e pieni di colore. Così Strachey
descrive il giorno che segue il giubileo.
Lytton Strachey, La regina Vittoria, p. 308:
Così, dopo i travagli e le tempeste della giornata sopravvenne
un lungo crepuscolo dolce e sereno e illuminato dai raggi dorati
della gloria. Perché un’atmosfera senza esempio di trionfo e di
adorazione avvolse l’ultimo periodo della vita di Vittoria. Il
suo trionfo era la sintesi e l’emblema di un più grande trionfo,
della culminante prosperità della nazione. Il consistente
splendore del decennio [1887-1897] che trascorse tra i due
giubilei di Vittoria trova a stento eguali negli annali
dell’Inghilterra. I saggi consigli di Lord Salisbury
parvero portare con sé non soltanto la ricchezza e la
potenza, ma anche la sicurezza: e il paese si assise con sicura
tranquillità al godimento di una grandezza ben stabilita. Come
era naturale, anche Vittoria si assise. Perché ella era una
parte dell’edificio: una parte che appariva essenziale; come un
mobile, una magnifica e inamovibile vetrina, nel vasto salone
dello Stato. Senza di lei il copioso festino del 1890 avrebbe
perduto la sua qualità più singolare: la serie così ben ordinata
di sostanziosi e semplici piatti, con il riflesso pesante, sulle
pareti, dell’argenteria quasi nascosta agli sguardi.
Osservazioni conclusive
Il punto centrale della biografia della regina Vittoria di
Strachey è la sua trasformazione da vedova petulante a matriarca
imperiale. Il ruolo mondiale di imperatrice fu per lei fonte di
eccitazione nella sua vecchiaia e conferì nuovo
significato al cerimoniale che la circondava.
Sebbene i toni più aspramente darwiniani dell’ideologia
imperialista siano assenti in questo lavoro, la luce favorevole
gettata sulla qualità mistica dell’impero britannico e su
Vittoria, lei stessa una tory imperialista non da meno dei suoi
ministri, mostra chiaramente che la biografia di Strachey è
opera di propaganda a favore della mentalità coloniale così
diffusa nella Gran Bretagna vittoriana ed edoardiana in
tutte le classi sociali e che, dice MacKenzies (1990,
p.4), inaugurò un periodo —che sarebbe durato fino
all’ascesa al trono di Elisabetta II — nel quale tutti i grandi
eventi reali sarebbero stati imperiali.
1 Sul ruolo propagandistico
della letteratura si veda Nünning, Ansgar e Rupp,
Jan 2008.
BIBLIOGRAFIA
Bearce George D. (1961). British Attitudes Towards
India,1784-1858. Oxford, Oxford University Press.
Cannadine David (2001).
Ornamentalism. How the British saw their Empire.
Penguin Books, London.
Le Jeune Françoise (2017). "Queen Victoria’s orientalism,
inventing India in England". In Imaginaires, Féminisme et
orientalisme,21, hal.archives-ouvertes.fr-03313493.
MacKenzie John M. (1990, 1984). Propaganda and Empire. The
Manipulation of British public opinion, 1880-1960.
Manchester University Press.
Metcalf Thomas R. (1995). Ideologies of the Raj,
Cambridge, Cambridge University Press.
Nünning, Ansgar and Rupp, Jan. "The Dissemination of
Imperialist Values in Late Victorian Literature and Other
Media". In Ethics in Culture: The Dissemination of Values
through Literature and Other Media, edited by Astrid
Erll, Herbert Grabes and Ansgar Nünning, Berlin, New York: De
Gruyter, 2008, pp. 255-278.
Strachey, Lytton (1921). Queen Victoria. Release Date:
August 21, 2011 [EBook #37153]. Project Gutenberg.
Strachey, Lytton (1966). La regina Vittoria.
Traduzione a cura di Santino Caramella. Milano, Arnoldo
Mondadori editore.
2,30-3,30 John Ruskin e Oscar Wilde
Oscar Wilde
Viaggiatore a Firenze; Ammiratore
dell'India - Rita Severi
Oscar Wilde (1854-1900) è autore di poesie, una
tragedia, lettere e vari scritti che ambientano,
descrivono o espongono alcune delle sue idee su Firenze
e sul suo più grande poeta, Dante Alighieri.
Visitò per la
prima volta Firenze nel 1875, quando era ancora studente a Oxford, dove
aveva assistito alle lezioni di Ruskin. Tornò in città
nel 1894, quando visitò Violet Paget/Vernon Lee e il suo
fratellastro Eugene Lee Hamilton. Ha visto molto
Bernard Berenson, un po' meno André Gide, ha visitato
Villa Stibbert e ha lasciato la sua firma nel libro
degli ospiti. Per tutta la
vita è stato attratto dal subcontinente indiano, dalla
sua spiritualità e religione. Come editore di
"The Woman's World" (1887-1890) scelse di recensire
libri sulla società indiana e le sue donne, e sollecitò
articoli sull'India, scritti da autori inglesi che
avevano visitato e studiato quel mondo intrigante.
Era estremamente
appassionato di conoscere la sua poesia sacra e i suoi
antichi rituali. Nella sua casa,
in Tite Street, Chelsea, si circondò di piccoli oggetti
decorativi indiani e fece ricoprire la maggior parte dei
pavimenti della casa con stuoie indiane. Nella sua
tragedia, Salomé, nella metaforica “danza dei sette
veli”, Wilde evoca sorprendentemente uno dei miti
indiani più complessi e artistici.
Alcune riflessioni sulla parola polis,
civitas, città.
Francesca
Ditifeci
Università
degli studi di Firenze
Abstract
Come
diceva Aristotele l’essere umano è zoon politikon echon ton
logon, animale politico dotato di parola, corpo abitato dalla
parola. Ed è proprio nella sua identità di parlessere che
diviene cittadino, abitante della polis. Quindi gli uomini sono
esseri capaci di politica, perché sono esseri capaci di
linguaggio. In questa prospettiva diviene chiaro che “in una città un posto ci deve
essere per tutti: un posto per pregare (la chiesa), un posto per
amare (la casa), un posto per lavorare (l’officina), un posto
per pensare (la scuola), un posto per guarire (l’ospedale). In
questo quadro cittadino, perciò, i problemi politici ed
economici, sociali e tecnici, culturali e religiosi della nostra
epoca prendono una impostazione elementare ed umana! Appaiono
quali sono: cioè problemi che non possono più essere lasciati
insoluti” (La Pira 1954).
E’ nella città che l’essere
umano cerca la sua realizzazione perché “per ciascuna di esse è
valida la definizione luminosa di Péguy: essere la città
dell’uomo abbozzo e prefigurazione della città di Dio. Città
arroccate attorno al tempio; irradiate dalla luce celeste che da
esso deriva: città nelle quali la bellezza ha preso dimora, s’è
trascritta nelle pietre: città collocate sulla montagna dei
secoli e delle generazioni: destinate ancora oggi e domani a
portare alla civiltà meccanica del nostro tempo e del tempo
futuro una integrazione sempre più profonda ed essenziale di
qualità e di valore! Ognuna di queste città non è un museo ove
si accolgono le reliquie, anche preziose, del passato: è una
luce ed una bellezza destinata ad illuminare le strutture
essenziali della storia e della civiltà dell’avvenire.” (La Pira 1955).
As Aristotle said, the human being is zoon
politikon echon ton logon, a political animal endowed with
speech, a body inhabited by speech. And it is precisely in his
identity as a parlessere that he becomes a citizen, an
inhabitant of the polis. Thus men are beings capable of politics
because they are beings capable of language. In this
perspective, it becomes clear that "in a city there must be a
place for everyone: a place to pray (the church), a place to
love (the home), a place to work (the workshop), a place to
think (the school), a place to heal (the hospital). In this city
framework, therefore, the political and economic, social and
technical, cultural and religious problems of our age take on an
elementary and human approach! They appear as they are: that is,
problems that can no longer be left unsolved” (La Pira 1954).
It is in the city that the human being seeks his
fulfilment because "for each of them Péguy's luminous definition
is valid: to be the city of man, a sketch and prefiguration of
the city of God. Cities perched around the temple; irradiated by
the celestial light that derives from it: cities in which beauty
has taken up residence, has transcribed itself in the stones:
cities placed on the mountain of centuries and generations:
destined still today and tomorrow to bring to the mechanical
civilisation of our time and of future times an ever deeper and
more essential integration of quality and value! Each of these
cities is not a museum where relics, even precious ones, of the
past are housed: it is a light and a beauty destined to
illuminate the essential structures of the history and
civilisation of the future” (La Pira 1955).
Questo mio lavoro parte con una
domanda: “Che cos’è una città?” proponendo un percorso di
parola, un viaggio all’interno della parola “città”, durante il
quale ho avuto autorevolissimi compagni di viaggio quali Giorgio
La Pira e Fioretta Mazzei con Giovanna Carocci, cui si
affiancano due autorevolissimi oratori che ho avuto l'onore di
avere come ospiti nei miei “Dialoghi dalla città sul monte
2023”, il primo è il Professor Panayotis Kantzas, psicanalista
lacaniano, https://www.youtube.com/watch?v=2XWRnAqfakk , il secondo è Padre Bernardo Gianni,
Abate di San Miniato al Monte https://www.youtube.com/watch?v=D9Ol-kCfCAw.
E in questo mio viaggio basato anche
sull’ analisi quantitativa, ho individuato alcune parole guida
nello spazio e nel tempo. Ecco le parole che io ho scelto, in
base appunto all’analisi dei testi, come parole guida, sono sei:
la prima è ‘essere umano in quanto essere parlante’/human
being as speaking being; la seconda è quella di ‘animale
politico’/political animal; la terza è la parola
‘relazione’/relationship; la quarta è la parola
‘vocazione’/vocation; la quinta è la parola ‘mistero’/mystery;
e l’ultima è la parola futuro/future. E parto con una, a
mio parere bellissima, citazione di Tucidide riportato poi anche
da Hannah Arendt nel suo testo “Vita activa” che è “Ovunque voi
andrete sarete una polis”. Che vuol dire questo? Vuol
dire che la polis è antecedente agli edifici. Prima
viene la civitas e poi viene la urbs. Perché
questo? Perché come diceva Aristotele, l'essere umano è zoòn
politikòn èchon tòn logon, cioè un animale politico dotato
di parola. Noi siamo corpi abitati dalla parola; ed è proprio
nella sua identità di parlessere che diviene cittadino,
cioè abitante della polis. Quindi, dice sempre
Aristotele, gli uomini sono esseri capaci di politica perché
sono esseri capaci di linguaggio. Teniamo ben presente
l’immagine della discesa di Mosè dal Monte Sinai con la Tavola
delle Leggi, il Decalogo, e questo Decalogo cioè queste parole
sono quelle che poi costituiscono l'essenza della polis, che
da questo gruppo errante diviene polis, quindi intorno a
queste parole si crea il legame sociale.
È dunque il logos ad essere
decisivo nella polis, in quanto è colui che conferisce
la posizione dell'essere parlante. La polis, la città è
il luogo del logos. Nella polis i cittadini
conducono un modo di vita nel quale solo il discorso aveva senso
e in cui l'attività fondamentale di tutti i cittadini era di
parlare tra di loro. Insisto molto sul discorso della comunità,
della communitas fondata sul fatto che i suoi membri
sono esseri parlanti legati fra di loro. Infatti è proprio il
fatto di essere parlante ciò che caratterizza, che distingue
l'essere umano da tutti gli altri esseri animati; il fatto
esclusivo di parlare è ciò che segna la differenza tra lui e
tutti gli altri animali. L' essere umano è un parlessere,
come viene definito da Jacques Lacan. Il fatto di essere
parlante è ciò che lo predispone per natura a vivere in una polis
costruita per la realizzazione del bene comune, dei suoi
cittadini, in un rapporto di relazione con gli altri suoi
simili. Come sottolineato da Francesco Barone, ma possiamo anche
andare molto più indietro e arrivare fino ai tempi di Socrate,
il linguaggio è l'attività più umana. Heidegger afferma che il
linguaggio è la dimora dell'essere; nella sua casa abita
l'essere umano. L'essere, l'essenza degli individui sono
determinati rispetto all'essere e all'essenza del linguaggio.
Allora capire questo fondamento della polis è il
presupposto necessario per andare poi a vedere quelli che
principalmente in Giorgio La Pira e in Fioretta Mazzei sono gli
elementi costitutivi della polis. Questa è la base, cioè
l'incontro tra esseri parlanti che costituiscono legame sociale
organizzato poi attorno a delle leggi.
Dice La Pira il 6 novembre del 1953
all’inaugurazione del nuovo quartiere dell’Isolotto: “Ogni città
racchiude in sé una vocazione e un mistero. Amatela e
custoditela”. Quindi già in questo primo riferimento che abbiamo
a Giorgio La Pira abbiamo incontrato due di quelle che sono le
parole chiave selezionate: vocazione e mistero. In un
altro celebre discorso tenuto da Giorgio la Pira a Ginevra
all’Assemblea della Croce Rossa Internazionale il 12 aprile del
1954, [La Pira] fa riferimento al valore storico della città e
quello correlativo delle responsabilità storiche. Facendo
riferimento alla categoria del tempo, chiaramente facciamo
riferimento alla sua tripartizione in passato, presente e
futuro, che in La Pira e in Fioretta Mazzei trovano poi un unicum.
Per entrambi la responsabilità che la generazione presente ha -
noi oggi, per esempio- ha sia una dimensione diacronica, sia
anche legata al passato, ma al tempo stesso proiettata verso il
futuro, cioè delle rifrazioni dell'eternità nel tempo. E si
chiede La Pira, visti i tempi, vista la minaccia, - come non
pensare ad una incredibile analogia con il nostro presente
momento storico! - è possibile che queste città, tutte le città
del mondo vengano radicalmente cancellate dalla faccia della
Terra? In realtà è inequivocabilmente provato che questa
devastazione totale delle città dell'uomo dalla faccia della
Terra è possibile. L'attualità del discorso è davvero
considerevole; infatti qualche bomba a idrogeno lasciata cadere
su alcuni punti del globo può ridurre la Terra ad un deserto.
Ecco quindi il richiamo alla rappresentanza e alla
responsabilità di tutte le città della Terra. Certamente loro
parlano da Firenze. Firenze ha una vocazione particolare per la
sua storia, da cui parte un abbraccio a tutte le città del mondo
in quanto tutte le città sono responsabili. Responsabili perché
cosa? “Il diritto all'esistenza delle città umane, un diritto di
cui siamo titolari noi della generazione presente, ma del quale
sono titolari ancor di più gli uomini delle generazioni future”.
Ecco qui che passato, presente e futuro si armonizzano. In che
modo? “Nel diritto, il cui valore storico, sociale, politico,
culturale e religioso si fa più grande nella misura in cui si
chiarisce, nella meditazione umana attuale, il significato
misterioso e profondo delle città. Nessuno senza commettere un
crimine irreparabile contro l'intera famiglia umana può
condannare a morte una città. Io domando, anche a nome delle
generazioni future, che i beni di cui sono destinatari non siano
distrutti”. E poi La Pira fa un riferimento alla sua “dolce e
armoniosa Firenze, creata in un certo senso sia per l'uomo come
per Dio, per essere come la città sulla montagna. Luce e
conforto sul cammino degli uomini; non vuole essere distrutta.
Questa stessa volontà di vita viene affermata insieme con
Firenze, grazie ad una missione tacitamente affidata al sindaco
del capoluogo toscano, da tutte le città della Terra; città,
ripeto, capitali e non capitali, grandi e piccole, storiche o di
recente tradizione artistica e no, tutte indistintamente. Esse
rivendicano unanimemente il loro inviolabile diritto all'
esistenza. Nessuno ha il diritto per qualsiasi motivo di
distruggerle. Le generazioni attuali non hanno il diritto di
distruggere una ricchezza che è stata loro affidata in vista
delle generazioni future”. Si tratta di beni che derivano dalla
generazione passata, di fronte al quale le presenti rivestono la
figura giuridica degli eredi fiduciari. I destinatari ultimi di
quest’ eredità sono le generazioni successive. “Sono venuto qui
a Ginevra, dice La Pira, per affermare il diritto all'esistenza
delle città umane, un diritto di cui siamo titolari noi della
generazione presente, ma della quale sono titolari ancor di più
gli uomini delle generazioni future”.
Questo incontro a Ginevra del ‘54 è
quello che poi stimolerà, ispirerà l'incontro a Firenze nel
1955, in cui appunto ci sarà il Convegno dei Sindaci dalle
capitali di tutta la Terra. Quindi da Ginevra si torna a
Firenze. Firenze diventa luogo di abbraccio, di incontro e di
abbraccio per tutte le città del mondo. E in questo incontro di
nuovo La Pira si lamenta, urla, denuncia, piange la crisi del
proprio tempo; e anche qui non possiamo non leggere
l’incredibile simmetria con questo nostro particolare momento
storico che riguarda non solamente Firenze, ma ovviamente tutte
le città, di nuovo, del mondo. “La crisi del nostro tempo, che è
una crisi di sproporzione e di dismisura rispetto a ciò che è
veramente umano; usa esattamente le due parole che poco tempo
prima aveva usato Simone Weil: sproporzione e dismisura. Ci
fornisce la prova del valore, diciamo così, terapeutico e
risolutivo che in ordine ad essa la città possiede. Com’ è stato
felicemente detto, infatti, la crisi del tempo nostro può essere
definita come sradicamento della persona dal contesto organico
della città. È bellissima questa immagine della città
come di un corpo vivente dal quale anche oggi, anche in questo
momento, la persona viene sradicata. Ebbene questa crisi non
potrà essere risolta che mediante un radicamento nuovo; dallo
sradicamento a un nuovo radicamento più profondo, più organico
della persona nella città in cui essa è nata e nella storia e
nella cui tradizione essa è organicamente inserita. Questo,
Signori, è il significato dell'improvvisa e vasta risonanza che
ha oggi nel mondo intero il tema della città. Parliamo qua da
Firenze, in questa nostra asse con Delhi e con altre citta, ma
lo siamo con tutte le città del mondo. Il tema della città è un
tema che va diventando l'aspetto sempre più marcato della
cultura e della vita del tempo nostro. A tutti si fa chiaro
infatti che in una città un posto ci deve essere per tutti: un
posto per pregare- la chiesa, un posto per amare- la casa, un
posto per lavorare- l'officina, un posto per pensare- la scuola,
un posto per guarire- l'ospedale. In questo quadro cittadino,
perciò, i problemi politici ed economici e sociali e tecnici,
culturali e religiosi della nostra epoca prendono una
impostazione elementare. Appaiono quelli che sono, cioè problemi
che non possono più essere lasciati insoluti. Perché questo?
Perché è proprio nella città, in questa dimensione di legame
sociale, in questa dimensione comunitaria che l'essere umano
cerca la sua realizzazione. Perché per ciascuna di esse è valida
la definizione luminosa di Charles Péguy: essere la città
dell'uomo, abbozzo e prefigurazione della città di Dio. E questo
è un aspetto molto particolare sia di La Pira che di Fioretta
Mazzei, anche in questo perfettamente allineati; infatti queste
parole a cui io faccio riferimento si trovano nei testi di
entrambi. Non solo guardare alla città come memoria, come
patrimonio da trasmettere, ma anche come prospettiva di futuro,
come anticipazione di quella che sarà la città celeste. Firenze
come anticipazione della Gerusalemme celeste; Firenze come tutte
le città del mondo. È molto bello questo focalizzarsi su
Firenze, ma aprire le braccia a tutte le città del mondo. Questo
è un procedimento linguistico comune ad entrambi gli autori e
che attraversa tutti i loro testi. Città arroccate attorno al
tempio, irradiate dalla luce celeste che da esso deriva; città
nelle quali la bellezza ha preso dimora. Certamente, il tema
della bellezza è un tema molto caro sia a La Pira sia a Fioretta
Mazzei; è un tema secondo cui è necessario che nella città si
respiri bellezza. E qui occorre puntualizzare che quando ci
riferiamo alla parola ‘bellezza’ non ci riferiamo semplicemente
ad un edificio pur bello. Noi siamo pieni di edifici bellissimi
in questa città ovviamente, ma è l’edificio cui facciamo
riferimento esiste ancor prima nel legame tra le persone che poi
lo andranno ad abitare. Ed ecco il collegamento all' essere
umano come essere dotato di parola, caratterizzato dalla parola.
Quindi c’è una bellezza anteriore che poi viene scritta nelle
chiese. Sono città collocate sulla montagna dei secoli e delle
generazioni, destinata ancora oggi e domani a portare alla
civiltà meccanica del nostro tempo e del nostro futuro una
integrazione sempre più profonda ed essenziale di qualità e di
valore. Ognuna di queste città non è un museo, messaggio
fortissimo per questa nostra città di Firenze e non solo. Non è
un museo ove si accolgono le reliquie, anche preziose, del
passato; è una luce ed una bellezza destinata ad illuminare le
strutture essenziali della storia e della civiltà dell'avvenire.
Ecco in queste parole il tempo si anima, perché qui il tempo-
come vive nella sua dimensione completa, tripartita, dove il
passato, il presente e il futuro formano un unicum, e
non se ne può levare un pezzetto, perché altrimenti la bellezza
dell'insieme svanisce. E parallelamente, come mette
magistralmente in luce Giovanna Carocci nel decennale dalla
morte (Toscana Oggi 2008): “Fioretta infatti aveva in mente un
volto ben preciso di Firenze, volto teologale che rispecchia
qualcosa dell'infinita bellezza della civitas dei”. Ecco
di nuovo questa parola, che è futuro, condivisa dai due. La
città come organismo vitale, composto di persone che vivono le
une accanto alle altre, in un'aspirazione comunitaria che tenti
di costruire giorno per giorno con umiltà, sapienza e amore il
bene comune. Visione del resto costituzionalmente sancita;
invece vedeva intorno a sé un muro di incomprensione quando non
di rispettoso disprezzo; e pochi giorni prima della morte,
avvenuta nel 1998, scriveva una specie di testamento, riassunto
in queste poche parole: “Una città può riflettere una bellezza
addirittura superiore alla bellezza di un viso perché è una
bellezza comunitaria, voluta da tutti, condivisa; e come perfino
la bellezza naturale, ha bisogno di essere accompagnata,
scoperta, anche corretta dallo sguardo e dalla mano dell'uomo,
così la bellezza cittadina ha bisogno di una partecipazione, di
un occhio d'amore collettivo. Il degrado di tante città è dovuto
proprio a questo, alla non educazione, alla non comunità. La
vita comunitaria infatti riflette la vita del cielo nei suoi
misteri.” che non sono solitari. Perché il nostro occhio sia
capace in profondità di bellezza e di poesia ci vuole un
atteggiamento interiore umile, semplice, costante perché,
nonostante tutto, camminiamo verso il massimo del semplice,
dell’umile, del lineare. Dio è semplice. La costruzione e il
denaro possono investire tutto, ma non è da questa analisi che
ne usciamo, ma in un rinnovamento interiore al quale tutti
aspiriamo e a cui non vogliamo rinunciare”.
A questo punto non possiamo non
soffermarci sulla parola “degrado”. È una parola verso la quale
inevitabilmente c’è un istintivo rifiuto di ascolto, ma della
quale non possiamo fare a meno, in quanto senza consapevolezza
del problema, non c’è possibilità di soluzione. Aveva ragione
Fioretta quando parlava di degrado, oggi potenziato dalla
iperconnessione. Siamo sempre connessi e al tempo stesso ci
appare sovente una città svuotata del discorso dei suoi
cittadini. Come abbiamo visto la città è fondata sull’incontro
di esseri umani parlanti che poi diventano cittadini. Se viene
svuotata del discorso dei suoi cittadini, la città muore,
svuotata dalla sua lingua, che diventa spesso una metalingua, la
città soccombe. Rimasta un insieme di edifici disidratati e
svuotati della parola, la città perde la vita, divenendo una
specie di maschera di cartapesta, ripiegata su se stessa. È
l’era del post umano, dell'umanità superflua profetizzata da
Hannah Arendt.
Mattine a Delhi - Arjun Shivaji Jain, Companion of the Guild of St George of John Ruskin
INTRODUZIONE
Prendendo dopo John Ruskin 1886 Mattine a Firenze
1, desidero che la
seguente per essere ciò che umile guida posso offrire
ai viaggiatori a Delhi, sia indiano e non, a dove sono
nato e cresciuto, e tornato a, vivere e amare. Come ha
fatto Ruskin, Ho intenzione di consegnare non
diversamente da come avrei fatto per gli amici, che
possono avermi chiesto le mie opinioni su di esso, non
preoccuparsi di come 'sbagliato', accademicamente,
potrebbero forse rivelarsi essere.
Nel corso di una settimana, in spirito, camminerò con
voi per la città. Chissà quante epoche passate
possiamo incontrare, quanti degli innumerevoli poeti e
pittori - tutti amanti in effetti - possiamo
incontrare? Vedremo quello che facciamo, occhi
immacolati dal dogma. Vedremo come un bambino, con gli
occhi pieni e brillanti. E possiamo anche decidere di
vedere - ed è davvero una decisione - di vedere di
buon cuore? - Prima di iniziare, sarete 'ben
consigliato', immagino, dai medici, a prendere i
vostri colpi e tutto il resto - in modo da mayn non
prendere nulla di particolarmente brutto mentre sei
qui; 'Delhi pancia' è quello che di solito viene
chiamato, Capisco. Bene, lasciate che vi dica che sarà
davvero prendere 'qualcosa', e che nessun colpo al
mondo sarà in grado di impedirlo davvero. Si può
infatti ammalarsi, e decidere di partire il primo
mattino, ma si può decidere di rimanere pure, per
sempre. Un ospite è simile a Dio, si crede qui in
queste terre.
LA PRIMA
MATTINA
APPRODO
Ah! Che mattina davvero! E che tempo perfetto! Riesci
a sentirlo sulla tua pelle? Sembra che abbia piovuto
ieri sera. Beh, non aprire gli occhi finché non te lo
dico io. - Ora. Vedi. Con attenzione i tuoi occhi
potrebbero reagire a tutta questa repentinità. L'aria
è colorata in modo diverso, non è vero? Un arancione
brillante, direi, e vaga, come se velata di bianco. Ha
anche un odore diverso, sai? Speziato e denso, di
incenso, pesante come se si potesse raccogliere in un
barattolo e portarlo con sé. Vi suggerisco di non
parlare per un po', affatto - ma ascoltate. Prendete
la città, il paese in, il subcontinente in - e forse
il mondo. La maggior parte di oggi, lascia che ti
dica, potresti non ricordare attivamente, ma solo come
in un sogno. Quindi cogli l'attimo. Sogna oggi stesso.
E no, non dormirete; non è quel tipo di sogno. Non c'è
riposo qui da trovare, almeno non inizialmente.
Perché, i vostri sensi sono tutti svegli, non è vero?
Avete visto come molti colori prima? Odorato come
molti profumi? Sentito come molti suoni, o toccato
come molte cose? Sentito come molti sentimenti? Tutto
in una volta? Sei stato all'interno di un oceano, e
vissuto per raccontare la storia? Bene. Notate che la
vostra attenzione diventa più acuta al secondo. Il
peso della sensazione su di voi. Sensazione infinita.
Come un fulmine penetra attraverso la vostra
coscienza. Non c'è senso per nulla. Questo è ciò che
la vita - vita pura, vita grezza - sembra.
LA SECONDA
MATTINA
PARCO DI CHITTARANJAN
Buongiorno! Hai dormito bene? Hai avuto qualcosa,
vero? Non devi rispondere. Non sarei sorpreso se il
vostro cuore stesse ancora battendo forte come ieri.
Ci vuole davvero un po' di tempo. Oggi camminiamo nel
parco di Chittaranjan, dove vivo da alcuni anni. La
parte bengalese della città è, la parte della città
che il poeta Tagore potrebbe vivere in, era lì.
Bengala a Delhi, si chiede? Perché sì! Tutta l'India a
Delhi, davvero! E con il tempo, vedrete, anche tutto
il resto del mondo. Il clacson, sì, delle auto? Sì,
beh, è qualcosa che dobbiamo costantemente affrontare
qui. A seconda di dove si pensa Delhi finisce, da
qualche parte tra i diciassette ei quarantatré milioni
di persone chiamano Delhi la loro casa - da qualche
parte tra tutti i Paesi Bassi, e più di Ucraina. È
divertente però, nel complesso, come tutto sembra
ancora funzionare. Se da qualche parte c'era caos nel
mondo, è qui, se da qualche parte l'anarchia, anche -
eppure, tutti sembrano rimanere calmi, più o meno, e
tutti, più o meno - più i poveri che i ricchi - ha un
sorriso sul loro volto. Anche il clacson costante - è
più un'ehi, sono qui' che 'scendere!' davvero. E oh,
hai notato gli animali pure? I gatti randagi e i cani
randagi, e le mucche randagi? Sì, abituarsi ad esso -
come hanno, gli animali. I leoni possono anche essere
i re della giungla qui in India, ma le mucche sono i
re delle città. E oh, tuttavia potremmo dimenticare le
scimmie? Come ci permettiamo, davvero?
LA TERZA MATTINA
PARCO VERDE E PARCO DEI CERVI
Sapete, nella mia infanzia, avevamo davvero anche
incantatori di serpenti? Non scherzavamo affatto. Ho
vissuto a Yusaf Sarai da bambino, una volta luogo di
una casa di riposo medievale, e ora una vera e propria
colonia di Delhi, un villaggio urbano. Per tutta la
sua popolazione e l'inquinamento, Delhi è, che ci
crediate o no, una delle città più verdi del mondo,
come naturalmente si può vedere. Il mese scorso, il
Semal albero-rosso-cotone-seta era tutto in fiore,
nella celebrazione di Holi forse, la festa dei colori.
Oh sì, abbiamo un sacco di loro, festival. Ogni paio
di settimane, sul serio! Ma sì, era Mal allora, e
presto sarà tutto amaltas ovunque, laburno, e
Gulmohar, il bellissimo cremisi Royal Poinciana - che
si può infatti mangiare! È un po' aspro! Lascia che ti
porti a Deer Park accanto, piuttosto vicino, e il mio
parco preferito da giovane. Oh, guarda! Un pavone! E
conigli! E cervi! E oh Dio, ha un profumo così buono,
non è vero? Profuma di innocenza. E oh, vedete che il
gelso è tutto abbastanza maturo ora. Volete
assaggiare? Dai, non essere così delicato! Prendine
uno direttamente dal ramo - quelli nerastri più scuri
sono più dolci e mettilo in bocca. Lavarlo porta via
la maggior parte dello zucchero, sembra. Delizioso,
non è vero? E hey, c'è un albero di eucalipto, vedi?
Vieni, ti mostrerò qualcosa. Qui, strofina queste
foglie secche nel palmo della mano - schiacciale,
davvero - e annusa? Sì? Vedo che sei distratto da
tutti i nomi di amanti incisi sugli alberi.
LA QUARTA
MATTINA
CHANDNI CHOWK
Oh, che
impertinente da parte mia non averti ancora chiesto da
mangiare? Sono già passati tre giorni! Bene, lasciate
che vi porti a Chandni Chowk allora oggi, la Piazza Al
Chiaro di Luna. Ora, questa è la Vecchia Delhi, la
vera Delhi se volete, prima degli inglesi. È un po'
come il quartiere gotico di Barcellona, non è vero?!
Ah, se solo ci fossero meno persone, o il governo
presterebbe più attenzione. Comunque, se pensavi di
aver visto tutto il giorno in cui sei atterrato, non
sei preparato, lo giuro. Tutti i tipi di persone
strane che vedrete oggi, tutti i tipi di cose strane
in corso. L'architettura, anche se fatiscente, è bello
però, non è vero? Dio sa quanti anni questi edifici
sono stati qui? Tutti ad arco, e reticolato, e
filigrana, quasi. Eppure, nessuno a prendersi cura di
loro. Bene, cominciamo al Forte Rosso oggi, roccaforte
dell'Impero Moghul, la penultima, o forse la terza,
grande città di Delhi, da sette, nove, o undici, chi
può dire? Ogni piccola corsia qui vende qualcosa di
completamente diverso - spezie, carta, gioielli,
aquiloni, i confini di sari per l'amor di Dio! E oh,
cibo! Ora che è qui ad ogni angolo. Sai, la vera arte
è sempre quella del cibo? Gli artisti tutti fingono,
mi sento a volte, con i loro dipinti. Ma attenzione,
il cibo di Delhi non è per i deboli di cuore. E
'vegetariano, sì, quasi tutto, ma speziato ad un grado
si potrebbe sentire se stessi all'inferno - ma dargli
tempo, e sarà un inferno si avrà bisogno! Vieni,
mangiamo un po' di chole-kulche e kachori? Che ne dici
di qualche nagori? Naan-khataai? Condito con un
bicchiere di limonata frizzante?
LA QUINTA MATTINA
GIARDINI DI LODHI
Hai notato, mi
chiedo, lungo la tua sinistra ieri, la sequenza di
edifici che stavamo passando? Non sono sicuro se una
cosa del genere esista in qualsiasi altra parte del
mondo, ma uno dopo l'altro, uno dopo l'altro, vicini
l'uno all'altro, abbiamo attraversato un tempio
giainista, un tempio indù, una chiesa battista, un
sikh Gurudwara e due moschee medievali! Incredibile,
non è vero? Ma andiamo ora ai Giardini di Lodhi, un
altro dei tanti Delhis del passato, ora trasformato in
un parco. Il numero di monumenti Delhi ha, davvero, è
sconcertante. Sono solo lì. Qui, là, ovunque, e spesso
nessuno li guarda nemmeno una seconda volta, sono così
radicati nella mente dei Delhiiti. Beh, i Giardini di
Lodhi sono rigogliosi, come potete vedere. Rigogliosi
di vegetazione. Gli edifici sono tutti quanti quanti
quanti quanti, mille anni? Tutto costruito di
quarzite, grigio, con il fuoco all'interno, quarzite
dall'antica catena Aravalli di montagne, tutto tranne
un ricordo del passato ora, per lo più. Questa parte
di Delhi, come potete vedere, di Nuova Delhi, è la
vera Nuova Delhi. Vorrei che a volte anche il resto
sembrasse così. Bene, questo è dove i politici vivono,
questi sono 'loro' giardini, sembra. Questo, e tutto
intorno - potete dimenticarvi di essere in India per
un minuto o due. I miei sentimenti per esso sono
mescolati. Lo amo - è bello! Ma così è molto di più,
se solo fosse curato meglio, o affatto. Il denaro dei
contribuenti? Beh, qui è dove va, suppongo,
all'abitazione del fisco.
THE SIXTH MORNING
RED HOUSE
E ora che siamo alla fine di questi sei giorni a Delhi,
vorrei portarvi in un posto nuovo oggi, in un posto in cui
possiate sentire dove la città potrebbe procedere, se
tendete a fare attenzione. È un fatto triste di questo
paese, come molti nella regione, che i suoi cittadini, se ne
avranno la possibilità, fuggiranno immediatamente. La fibra
morale della nazione, una volta famosa, se si approfondisce
abbastanza in profondità, non si può trovare troppo
facilmente oggi. La volubilità di certi popoli, in realtà, è
incredibile. Eppure, esistono anche luoghi come questi -
come la Casa Rossa. Può tutta Delhi guardare un giorno come
questo? Costruito progressivamente di mattoni, mattoni nudi,
e calce, reticolato in ogni modello? E ad arco, dove un arco
può andare? Non c'erano piani per questo, sai, nessun
progetto architettonico? È stato lavorato come una scultura,
con amore ogni giorno. Vieni, sediamoci nel cortile aperto
per un po', e godiamocene tutta la sua espressività. Vuoi
forse un po' di tè? L'odore del rampicante Rangoon è tutto
su di noi, minacciando di farci rimanere qui per sempre. Ah,
guarda, una banda di giovani è appena arrivata. Sono qui per
un workshop sembra. Parlano in inglese, anche se non
colpiti, e sono vestiti abbastanza alla moda, no? E come
magnificamente si sentono una parte di tutto questo? Hanno
tutti conosciuto prima, non si calcola? O questo posto ha
fatto loro qualcosa? Questo è prezioso. La luce del sole è
così bella. Tutta la vita è così bella. Non affrettiamoci
per il domani. Questo è buono!
LA SETTIMA
MATTINA
DILLI HAAT
CONCLUSIONE
Beh, forse una
settimana non era affatto sufficiente per un tour del
genere, no? Come ha fatto Ruskin, temo di non riuscire
a scegliere nessuna opera d'arte molto particolare da
considerare, ma è davvero difficile qui, questo, sai?
L'arte non c'è più, nel senso ovvio, da nessuna parte,
da guardare qui. Forse è ovunque? Non è affatto visto
allo stesso modo, vedete. Le cose non sono così
classificate, come conquistate, e come rese schiave
qui dell'intelletto. Sono più da sentire, sento. Più
da essere percepiti da un cuore aperto, che la mente.
Eppure, i mormorii dei secoli risiedono, come promesse
del futuro. La città continua - Dio sa come, ma non! -
Dì un po', ti piacerebbe avere qualche ricordo di
questo nostro viaggio da portare con te? Andiamo una
volta a Dilli Haat prima di partire, il bazar nel
cuore di questa metropoli. Puoi dirmi quello che ti
piace, ok? Sarà il mio regalo per te. Oh, che ne dici
di questa gonna ricamata in oro? Questa sciarpa
indaco? Uno di questi infiniti tappeti pesanti? O
mango? Oh, sì, manghi - di centinaia di varietà - il
re dei frutti! Se non li avete mai avuti prima, non
crederete forse quanto sono dolci e come nel mondo
tale dolcezza potrebbe essere risucchiata mai dalla
terra? Beh, c'è qualcosa nel terreno qui, c'è davvero.
In quale altro modo Gandhi potrebbe essere nato qui?
In quale altro modo Mahavira e Buddha? E tutto il
resto? Ma temo di averti intrappolato! Chi, sano di
mente, potrebbe sopportare di lasciare questi vicoli?
Queste non sono le 'strade' di Delhi, amico mio, ma la
tela di un artista. Delhi. La città scelta del mondo.
La città che i cieli hanno saccheggiato e sprecato, di
volta in volta. Delhi solo è la città dell'amore. E io
sono un abitante di questo giardino distrutto. -
Addio! Ci rivedremo.
BIBLIOGRAFIA
1 The
Complete Works of John Ruskin, Library Edition. Volume
XXIII, pp. 293-436. Lancaster University. Available online
at lancaster.ac.uk/media/lancaster-university/content-assets/documents/ruskin/23ValdArno.pdf
Restauri
The Indian Memorial, Florence -
Dr Rosie Llewellyn-Jones MBE
Il Parco delle Cascine a Firenze contiene un insolito
monumento funerario dedicato a un sovrano indiano,
Rajaram II di Kolhapur. Il Rajah morì a soli vent’anni,
il 30 novembre 1870, all'Hotel della Pace in Piazza
Manin a Firenze. Stava tornando a casa, viaggiando
attraverso l'Europa dopo aver trascorso quasi cinque
mesi in Inghilterra. Kolhapur era un piccolo stato
nominalmente indipendente nel paese meridionale di
Mahratta, ora nel Maharashtra. Non faceva parte
dell'India britannica anche se il governo britannico
aveva nominato un agente politico e l'educazione del
giovane Rajah era attentamente supervisionata. Se si
fosse dimostrato un sovrano inadatto, agli occhi degli
Inglesi, sarebbe stato deposto in silenzio e nominato un
successore più malleabile. Ma Rajaram si mostrò un
principe modello, lungimirante, interessato alla scienza
e alle arti, parlava correntemente l'inglese, lo
scriveva abbastanza bene ed era in genere disponibile
nei confronti del capitano Edward West che fu nominato
“assistente speciale” per sovrintendere alla sua
istruzione e formazione. Un Parsi laureato presso
l'Università di Bombay fece da tutor del Rajah.
Sebbene fosse un Hindu praticante e consapevole della
sua illustre ascendenza mahratta, Rajaram si
“anglicizzò” e sviluppò un certo gusto per la società
degli Europei. Visitava il quartiere britannico di
Kolhapur e ascoltava la banda del reggimento suonare la
sera mentre chiacchierava con la gente del pubblico. Gli
piaceva andare a cena e imparò a ballare le quadriglie.
Fu il suo incontro a Bombay con il principe Alfredo,
secondo figlio della Regina Vittoria, che gli fece
venire l'idea di una visita in Inghilterra. Ma c'erano
alcuni problemi che dovevano essere prima risolti. Molti
Hindu non viaggiavano fuori dall'India perché
significava attraversare il Kala Pani, “l'acqua nera”, e
questo comportava la perdita della casta. Poi c'era il
problema del cibo, Rajaram non avrebbe mangiato alle
cene britanniche a Kolhapur se non avesse portato il suo
cibo, preparato dai cuochi bramini. Doveva portare con
sé in Inghilterra un cuoco e un assistente e dovevano
portare con sé anche le pentole e tutte le spezie
necessarie. Le uniche cose che potevano essere
acquistate all'estero erano galline vive, uova e
verdure.
Ciò nonostante Rajaram salpò da Bombay nel 1870 con il
capitano West, il tutor Parsi e undici assistenti
nativi. Il gruppo arrivò a Folkestone, sulla costa del
Kent il 14 giugno, poi prese il treno per la stazione di
Charing Cross e da lì si diresse verso una casa in
affitto vicino a Hyde Park. Le disposizioni erano state
date dal personale dall'ufficio indiano perché si
trattava di un evento importante, la prima volta in cui
un principe hindu regnante avrebbe visitato
l'Inghilterra. Fu elaborato un programma intenso.
Durante la prima settimana Rajaram visitò Madame
Tussauds, la Galleria delle cere, Trafalgar Square e la
Torre di Londra. Fu accolto calorosamente all'India
Office, il dipartimento governativo che era succeduto
alla vecchia East India Company, abolita nel 1858. La
Compagnia aveva istituito un proprio museo e il Rajah fu
sorpreso di vedere una così grande collezione di
antichità indiane a Londra. Alcune delle sue visite
furono dettate dal suo interesse per le nuove
tecnologie, come la conferenza al Regent Street
Polytechnic che usava slides proiettate da una “lanterna
magica” e l'ufficio del telegrafo elettrico, dove i
messaggi potevano essere ricevuti dall'India e ottenere
una risposta, il tutto entro cinque minuti. Apprezzò
molto attrazioni turistiche tra cui il British Museum,
il Crystal Palace, Kew Gardens e la St Paul’s Cathedral.
Furono organizzati altri eventi proprio per mostrare
l'Inghilterra Vittoriana al suo meglio e,
implicitamente, i benefici che l'India poteva ricevere
sotto il benevolo dominio britannico. Rajaram fu
presentato due volte alla vedova Regina Vittoria al
Castello di Windsor; frequentò le Camere del Parlamento,
dove vide la democrazia in azione e incontrò il primo
ministro William Gladstone e Benjamin Disraeli. Fu
invitato a una cerimonia di laurea all'Università di
Oxford dove rimase meravigliato dal comportamento
rumoroso degli studenti.
Non erano tutte visite formali. Il Rajah assistette
anche alla partita di cricket tradizionale tra le scuole
di Eton e Harrow al Lord’s Cricket Ground, prese lezioni
di danza, giocò a croquet sul prato di una casa di
campagna e frequentò il teatro più volte per sentire
Adelina Patti, la celebre cantante lirica italiana che
ammirava molto. Incontrò alcuni compatrioti che si erano
stabiliti in Inghilterra, tra cui Dadabhai Naoroji, il
primo membro del Parlamento indiano e visitò il
Maharajah Duleep Singh, il cui regno Sikh era stato
conquistato dagli Inglesi, e che ora viveva come un
gentiluomo di campagna nel Suffolk. Rajaram incontrò
anche il Nawab Nazim del Bengala, Mansur Ali Khan, che
era venuto in Inghilterra per appellarsi contro il
sequestro da parte del governo britannico del suo
precedente assegno, il fondo nizamat. I due
uomini, entrambi sovrani indiani a pieno titolo, ed
entrambi in cerca di cose diverse, conversavano in
inglese nel paese straniero che governava il
proprio. Rajaram mostrò poche informazioni sulla
propria posizione e il capitano West, che pubblicò il
suo diario dopo la morte di Rajah, disse che era
semplicemente un resoconto giornaliero di visite ed
eventi, piuttosto che un'analisi delle relazioni
Indo-Britanniche o di qualsiasi profonda riflessione
sulla propria posizione anomala. Gli Indiani erano
ancora una rarità a Londra e quando il Rajah e il suo
gruppo facevano un giro in carrozza a Victoria Park,
east London, notò che “le persone che stavano camminando
nel parco si stupivano nel vedere noi nativi e facevano
un grande scalpore ogni volta che ci vedevano”.
Dopo brevi visite in Scozia, nelle Midlands e in
Irlanda, dove fu accolto dal Viceré a Dublino, il gruppo
lasciò Dover il 1º novembre dirigendosi a Ostenda, poi
attraversò il Belgio e andò in Germania. Lo scoppio
della guerra franco-prussiana li costrinse ad evitare la
Francia. L'11 novembre il Rajah fece l'ultima
annotazione scritta a mano nel suo diario; le voci
successive furono dettate da lui, probabilmente al
capitano West. Due giorni dopo Rajaram riferì che aveva
avuto un attacco di febbre e stava molto male. Il giorno
seguente, il 14 novembre, non poteva camminare “a causa
di un evidente visivo di reumatismi” e a Innsbruck
dovette essere portato alla sua carrozza su una sedia.
Quando il gruppo arrivò a Venezia e fu trasportato in
una portantina al Palazzo Ducale e in piazza San Marco
sembrava un raduno. A Firenze il Rajah accettò a
malincuore di essere esaminato da un medico inglese, il
dottor Fraser - aveva portato con sé il suo medico
indiano - ma ci fu un improvviso peggioramento delle sue
condizioni e morì nella sua suite d'albergo il 30
novembre.
La causa della morte, senza un’autopsia, è stata
descritta vagamente come ”visceri addominali, insieme al
collasso del sistema nervoso” che non spiega i sintomi
reumatici. La triste notizia fu telegrafata alla
famiglia di Rajah a Kolhapur.
Nella morte Rajaram creò molti più problemi di quanti ne
avesse creati nella vita. I suoi assistenti Hindu
insistettero perché il suo corpo fosse cremato, ma ciò
era severamente proibito dal Comune di Firenze. La
pena prevista per chi non seppelliva un cadavere nella
bara era due anni di reclusione. Ora, per una curiosa
coincidenza, la questione della cremazione era stata
sollevata un anno prima a Firenze, quando la città
ospitò la seconda Conferenza Medica Internazionale nel
settembre 1869 alla quale parteciparono delegati
provenienti da paesi lontani come l'India e l'America.
Durante la conferenza di due settimane fu letto un
articolo dal dottor Pierre Castiglioni, egli stesso
fiorentino.
“Sull'incenerimento dei cadaveri” era un'idea radicale
ben argomentata. Sosteneva che i cimiteri erano
diventati luoghi insalubri, con l'odore di corpi mal
sepolti che penetravano attraverso le aree urbane.
Anche i campi di battaglia erano un problema quando i
cadaveri non potevano essere sepolti rapidamente.
C’erano obiezioni religiose, diceva il dottor
Castiglioni, e anche difficoltà tecniche prima che i
crematori potessero essere sviluppati. Ma,
concluse, non era meglio per le persone in lutto avere
una “manciata di polvere” (une “poignée de poussière”)
che era purificata, leggera e senza odore, piuttosto che
il pensiero di una persona cara che si decomponeva su un
letto di vermi e putrefazione? Questo discorso
potente ed emotivo fu accolto calorosamente e fu
sostenuta la tesi che la cremazione doveva essere
preferita all'inumazione. Anche se non diventò
completamente legale per altri diciotto anni, a Milano
fu costruito un crematorio nel 1876 e l'Italia fu in
prima linea negli sviluppi tecnici con gli ingegneri in
visita in Inghilterra per dare consigli. Nel 1885
fu istituito a Woking, nel sud dell'Inghilterra, il
primo crematorio.
Non sappiamo se il dottor Castiglioni sia stato
consultato dopo la morte del Rajah, quando si tennero
discussioni frenetiche per contemperare due ideologie
opposte mentre il tempo correva. Una cremazione hindu
avviene normalmente entro 24 ore, per ovvie
ragioni. Il medico avrebbe certamente sostenuto la
cremazione ed è possibile che abbia creato una sorta di
precedente mentre il dibattito continuava negli anni ’70
dell’Ottocento. Chiaramente era possibile essere
profondamente religiosi e praticare la cremazione - era
solo una religione diversa dalle rigide credenze
cattoliche prevalenti all'epoca. Il capitano West
scrisse che ciò che accadde dopo la morte di Rajah era
stato certificato dal medico locale, Enrico Passigli. Il
Signor Peruzzi, il Sindaco di Firenze si recò
immediatamente all’Ambasciata per incontrare Sir
Augustus Paget, il Console Britannico e per discutere
della cremazione. Peruzzi, di antica famiglia fiorentina
di notevole importanza, spazzò via le obiezioni degli
“altri partiti” e le superò grazie ai suoi “noti
sentimenti di tolleranza religiosa”. Le disposizioni per
il corteo funebre e la cremazione furono attuate entro
l'1.00 am e ne furono informati il Direttore della
Polizia Municipale e il Segretario della Commissione
Sanitaria comunale.
Il luogo scelto per la cremazione era all'estremità del
Parco delle Cascine, sulla riva del fiume Arno, in una
spianata deserta e aperta. Normalmente il corpo sarebbe
stato portato su una bara in spalla da quattro o sei
uomini, ma fu concordato che ciò avrebbe attirato troppa
attenzione, quindi fu utilizzato un omnibus
trainato da cavalli appartenente all'hotel. I
servitori del Rajah si sedettero all'interno, uno di
fronte all'altro, e sulle loro ginocchia sostennero la
tavola su cui giaceva il corpo. Non era
esattamente una soluzione dignitosa, ma evitò che il
corpo fosse posto sul pavimento.
Nonostante l’ora e il maltempo, un certo numero di
carrozze e una grande folla aveva saputo dell'evento e
seguì il corteo fino al luogo dove la pira funebre era
già accatastata.
Il corpo all’1.30 am fu adagiato con reverenza sulla
sommità del tumulo alto tre piedi, con la faccia rivolta
verso est. I resoconti dei testimoni oculari
differiscono su come il Rajah era vestito per questo
evento - alcuni hanno parlato di grandi collane di
perle, braccialetti d'oro e gioielli posti su un
turbante, anche se appare più probabile un'altra
descrizione che racconta di un ricco scialle rosso con
bordi ricamati in oro. Il capo era unto con ghee e
legno di sandalo e rami di betulle ammucchiati. L'intera
scena era illuminata da piccole lanterne di carta
portate dai servitori del Rajah. Poco prima delle
2:00 del mattino si dette fuoco alla pira con una torcia
e un forte vento del nord aiutò le fiamme a divampare.
I servitori indiani sedevano a gambe incrociate a terra,
pregando tranquillamente e inchinandosi verso la
pira. Alle ore 10.00 del mattino del 1º dicembre
la cerimonia era terminata e le guardie comunali
aiutarono a raccogliere i frammenti di ossa e cenere e a
depositarli in un vaso di porcellana che fu chiuso con
un panno rosso e ceralacca. Il luogo della pira fu stato
pulito e lavato e grani di riso furono sparsi sull'erba
come offerta all'anima dell'uomo morto.
Quando la notizia della morte del Rajah si diffuse a
Kolhapur, fu organizzato un incontro pubblico e il 18
dicembre 1870 fu istituito un Comitato in memoria del
Rajaram Chhatrapati. Fu aperta una lista di iscrizione
appositamente per dotare il Liceo Kolhapur di borse di
studio per i poveri meritevoli. Il compianto Rajah aveva
posto la prima pietra della scuola l'anno prima e
l'educazione sia per i ragazzi e le ragazze era uno dei
suoi particolari interessi. La scuola fu rinominata in
suo onore.
A Firenze, vicino al luogo della cremazione, un bel
baldacchino in stile indiano sostenuto da quattro
pilastri elaborati protegge un bel busto di Rajaram. Lo
scultore, Charles Francis Fuller, fu frutto di una
scelta attenta. Nato in Gran Bretagna, Fuller si
trasferì a Firenze nel 1850 e faceva parte di un piccolo
gruppo di “esiliati” artistici, felici nel loro paese
d'adozione. Il busto è basato su fotografie del Rajah
scattate mentre era a Londra e lo mostra con il
tradizionale turbante di Mahratta, con una punta sul
lato destro. Secondo le descrizioni di coloro che lo
hanno incontrato in Inghilterra, non è mai stato visto
senza questo turbante perché sarebbe stato
indicibilmente scortese da parte sua apparire a testa
nuda in compagnia. Il baldacchino, basato sul chhatri
indiano, è stato progettato dal maggiore Charles Mant,
ingegnere di Bombay. Mant continuò poi ad avere una
carriera redditizia come architetto in India e progettò
alcuni palazzi per i governanti reali minori. In
particolare fu incaricato dal successore di Rajaram,
Narain Rao, di progettare un nuovo palazzo per Kolhapur,
una miscela fantastica di architettura Indo-Saracena,
irta di torri, torrette, cupole e chioschi, che fu
completato nel 1884. Non si sa chi finanziò il chhatri e
il busto di Firenze, anche se si suppone che potrebbe
essere stata la famiglia di Rajah. Un ponte vicino al
sito, aperto nel 1978 è conosciuto semplicemente come il
“ponte all’Indiano”, un bell’omaggio a questo modesto
principe che aveva sperato di introdurre nuove idee a
Kolhapur dopo la sua visita in Europa, ma che purtroppo
tornò mai a casa.
Il restauro del monumento, che si era deteriorato,
iniziò nel 2019 ed fu complicato a causa della varia
composizione ed esposizione agli agenti atmosferici:
sgretolamento degli ornamenti in marmo e arenaria,
disintegrazione del volto e del busto, e perdite nella
decorazione causate tentativi di ricostruzione eseguiti
con varie tecniche nel tempo. Il monumento presentava
anche un preoccupante deficit strutturale su una delle
colonne in ghisa che sostenevano il baldacchino. Il
progetto, ora completato, è stato condotto dal Servizio
Belle Arti del Comune di Firenze ed è costato 145.000
euro.
Il monumento
restaurato nel Parco delle Cascine
Busto di Rajah
Rajaram di Charles Francis
Fuller
Rajah Rajaram, da una fotografia, 1870
Il nuovo
palazzo, Kolhapur
INDIA
23 aprile, domenica, Red House, Delhi
Veda Francesca
Alexander and John Ruskin: Tuscan Folk Tales
La Sibilla toscana di Ruskin: Francesca Alexander - Emma Sdegno, Università Ca' Foscari Venezia
Il
libro di cui parlerò è l'edizione di Ruskin
dei Roadside Songs of Tuscany di
Francesca Alexander, opera pubblicata in
fascicoli tra il 1884 e il 1885; la città è la
località rurale di Cutigliano, un paesino di
montagna dell'Abetone, nell'Appennino toscano.
Il libro fu concepito nella stagione
successiva alla guerra franco-prussiana
(1870-1871), un conflitto che per Ruskin fu
molto doloroso, che amplificò la sofferenza
psicologica di quegli anni e il senso di
devastazione dell’eredità culturale e
spirituale europea.
Nel ricostruire la genesi
del libro, seguiremo Ruskin nel suo penultimo
viaggio sul Continente. Il 5 agosto 1882,
cinque mesi dopo il terzo e più grave episodio
della malattia mentale che lo afflisse dal
1877, Ruskin intraprese – su consiglio medico
– il suo penultimo viaggio nel continente,
l’ultimo in Toscana, accompagnato dal suo
domestico e dal giovane artista W.G.
Collingwood.
Il viaggio si svolse in
parte in Francia (Champagne, Borgogna e Giura)
ed in parte in Toscana (Pisa, Lucca e
Firenze). L’itinerario francese lo portò
“sulla vecchia strada”, come Ruskin la
chiamava, nei luoghi dell’Europa che aveva
ripetutamente visitato con i genitori e che
sarebbero stati ricordati nella sua
autobiografia Praeterita (1885-1889). Già
negli anni 1860 Ruskin aveva progettato una
serie di “Studi sulla storia e
sull’architettura cristiana” il cui titolo
generale sarebbe stato: Our Fathers have told
us [I nostri padri ci raccontarono]. L’opera
aveva lo scopo di studiare - attraverso un
lavoro sul campo, visitandone i luoghi – “il
potere della Chiesa nel XIII secolo”. L’unico
volume della serie ad essere pubblicato fu La
Bibbia di Amiens nel 1880. Il viaggio del 1882
doveva andare più indietro nel tempo, nei
primi secoli del Cristianesimo. Ruskin non
portò a termine questo progetto ambizioso, ma
l’interesse per il monachesimo primitivo
risulta essere profondamente rilevante per Roadside
Songs of Tuscany.
La storia di Roadside Songs of Tuscany ha inizio il 5 ottobre 1882, quando Ruskin e Collingwood arrivano a Firenze e vengono presentati agli Alexander, una famiglia di espatriati del Massachusetts che si era stabilita in Toscana nel 1853. Francis, un pittore ritrattista di Boston, e Lucia Gray Swett, donna di origini alto borghesi e con amicizie aristocratiche, facevano parte di quella vasta cerchia di artisti anglo-americani che vivevano a Firenze alla fine dell'Ottocento, e rispetto ai quali la figlia Fanny doveva risultare una ragazza piuttosto eccentrica. Nata a Boston nel 1837, Esther Frances, detta “Fanny”, parlava l’italiano come seconda lingua madre. Era particolarmente e insolitamente legata ai poveri della popolazione locale, e coltivava le sue abilità di disegnatrice per comporre fogli preziosi come messali con disegni di fiori e canzoni popolari, con la cura e la devozione di un’amanuense. Gli Alexander trascorrevano abitualmente le vacanze estive sugli Appennini, all’Abetone, dove Fanny aveva un rapporto straordinariamente profondo e solidale con le contadine del villaggio. Era una evangelica luterana particolarmente devota, profondamente interessata alle tradizioni religiose e alle leggende popolari che venivano trasmesse tra i contadini soprattutto attraverso il canto. “In queste montagne”, come dice Van Brooks, “tutti cantavano, i contadini, i pastori e i carbonai che, mentre vegliavano i loro fuochi di notte, si tenevano compagnia cantando insieme e improvvisando versi”. Dotata anche lei di talento musicale, Fanny iniziò a trascrivere i canti e le melodie contadine in un manoscritto. Il suo lavoro accurato aveva uno scopo documentario e artistico, oltre che filantropico, in quanto Fanny intendeva vendere il manoscritto a qualche mecenate americano per poi ridistribuire il denaro tra i poveri dell’Abetone. Fanny era strettamente legata ad un vincolo di solidarietà con la gente del luogo, che la vedeva "miracolosa", chi "curava gli invalidi [...], permetteva ai bambini poveri di andare al mare, comprava loro materassi, vestiti e scarpe e pagava loro l’affitto a chi non aveva i mezzi”.
Beatrice
Un’importante mediatrice della cultura orale
toscana per Fanny fu Beatrice Bernardi di Pian
degli Ontani, improvvisatrice analfabeta dalla
cui viva voce Fanny trascrisse e tradusse la
maggior parte delle canzoni, dei rispetti e
degli stornelli toscani. Già sessantenne
quando la conobbe Fanny, Beatrice era una
celebrità nei salotti fiorentini, sebbene
continuò a vivere del lavoro contadino,
conducendo una di stenti fino alla fine. In Roadside
Songs Beatrice occupa un posto di primo
piano: il suo ritratto apre la raccolta e una
decina di pagine sono dedicate a particolari
di prima mano della sua biografia. Un’altra
fonte importante fu Edwige Gualtieri,
l'affettuosa, pia e musicale domestica di
Fanny, la cui fama si deve invece solamente
all’edizione di Roadside Songs of Tuscany
di Ruskin.
I canti raccolti da Fanny
sono un’elegia a un territorio e alla sua
gente, alla vita contadina, ai sentimenti
universali, alla musica antica tramandata
oralmente. I disegni e le poesie che
trascrisse e tradusse furono generati da un
intenso rapporto con il luogo. Né autoctona né
straniera, ma una insieme di entrambe, Fanny
dà un’immagine composita della sua Toscana,
con la comprensione dell’insider, ed lo
sguardo meravigliato dell’outsider. Il suo
lavoro è parte di quell'interesse letterario
per le tradizioni e per i canti popolari
emerso in Italia negli anni Quaranta
dell'Ottocento, quando diversi studiosi
avevano iniziato a raccogliere e pubblicare un
vasto corpus di materiali e a stabilire forme
metriche e rime, varianti e teorie sulle
origini e sui loro modi di trasmissione.
Inoltre, la scrittrice inglese Ouida aveva
ambientato nell'Abetone il suo romanzo A
Village Commune (1881), riportando in
appendice una documentata storia del luogo e
di Beatrice di Pian degli Ontani. Tutte queste
opere sono menzionate in Roadside Songs of
Tuscany.
Il 9 ottobre 1882, in
termini iperbolici che ricordano le
descrizioni di alcuni momenti rivelatori -
come l’incontro con Tintoretto nella Scuola di
San Rocco nel 1845 - Ruskin scrisse a Mrs
Alexander dicendo che il loro incontro aveva
segnato una svolta nella propria vita:
Ho
preso una nuova penna - è tutto ciò che posso
fare - vorrei imparare una scrittura
completamente nuova da qualche grazioso orlo
di una veste d'angelo, per dirvi con quale
felice e riverente ammirazione ho visto ieri i
disegni di vostra figlia; riverente, non solo
per il dono di genio del tutto celestiale in
un genere che non avevo mai visto prima, ma
anche per lo spirito altamente dolce e
amorevole che ha animato e santificato
l’opera, e per la serenità che ha espresso
nelle più sicure fedi e nei migliori scopi
della vita.
Ruskin
propose di acquistare il manoscritto, che gli
si era rivelato strettamente legato “al [suo]
lavoro in Inghilterra”, di pagare la somma
richiesta dalla famiglia di 600 ghinee e di
collocarlo nel Saint George Museum. La sua
idea era di esporre il manoscritto a Sheffield
a beneficio dei Companions of the Guild of
Saint George e dei contadini locali. A questo
scopo, desiderava che Fanny scrivesse “come
introduzione al manoscritto, brevi schizzi
delle persone reali di cui sono riportati i
ritratti”. L’obiettivo principale degli
schizzi sarebbe stato quello di “trasmettere
alla mente dei nostri paesani inglesi (per non
dire dei principi) una conoscenza solidale
della realtà della dolce anima dell’Italia
cattolica”.
L'incontro segnò una svolta
anche per Fanny. La notizia della visita di
Ruskin e dell’interesse di quest’ultimo per il
suo manoscritto si diffuse rapidamente in
tutta Firenze e lei divenne all’improvviso una
celebrità. A dicembre scrisse a un amico che
era entrata "nella lista delle persone
illustri", che la sua casa era stata invasa
dalla "più strana varietà di persone [...] di
ogni nazionalità", che chiedevano di vedere il
suo lavoro in una frenesia di emulare Ruskin.
Quando Ruskin tornò in
Inghilterra, a metà novembre 1882, era in uno
stato di grande entusiasmo per il suo nuovo
tesoro e iniziò rapidamente a diffondere
riferimenti all’opera di Fanny nelle sue
conferenze pubbliche. Deve essere stato in
questo periodo che iniziò a riferirsi a Fanny
nei suoi scritti pubblici come “Francesca”.
Ruskin presentò l’opera di
Francesca in diverse occasioni, suscitando un
notevole interesse per la sua nuova amica e
per il suo lavoro. In giugno, a Prince of
Wales Terrace, Kensington, tenne una
conferenza privata sul “Libro di Francesca”
con duecento invitati. Diversi giornali
riportarono l’evento, non celando la curiosità
di scoprire l’identità della misteriosa
Francesca. Tutti notarono che il conferenziere
era “in ottima salute e spirito”, che la
seconda parte fu tutta dedicata al “Libro di
Francesca”, un’opera “scritta e illustrata da
una certa Miss Alexander”, di cui furono
mostrati i disegni originali a penna e
inchiostro. Una recensione più lunga sullo
Spectator del 19 giugno riportava la
conferenza in modo più dettagliato, affermando
che Ruskin aveva menzionato alcuni difetti
correggibili nella resa della figura umana di
Francesca, ma aveva espresso l’elogio
incondizionato della forza e della delicatezza
dei suoi disegni di fiori, paragonabili solo a
quelli di Leonardo da Vinci. L'associazione
con i fiori lo aveva poi portato a vedere
nelle leggende popolari che Francesca aveva
appreso da Beatrice degli Ontani “le scintille
che hanno acceso la sua immaginazione e dato
vita alla sua abilità”, scintille che dovevano
ricordare a Francesca “nella sua innocente
freschezza, i Fioretti che, sei secoli
prima, si riunirono intorno alla memoria di
San Francesco”.
Questo riferimento ai
Fioretti è interessante e merita una certa
attenzione. Quando i primi due numeri di
Roadside Songs vennero pubblicati nell’agosto
del 1884, Ruskin scrisse nuovamente a
Francesca paragonando l’opera ai Fioretti di
San Francesco, e fece un riferimento più
stretto allo scopo del libro e ad alcune note
aggiuntive che aveva inserito. “Sono molto,
molto contento”, disse, “della forma che sta
prendendo il libro - i piccoli pezzi
aggiuntivi mi permettono di mettere insieme il
tutto, in quella che sarà la cosa più bella e
più buona che si sia mai vista, i fioretti
di San Francesco”.
Fioretti
di San Francesco
Prima
del primo studio filologico di Paul Sabatier
del 1893 sui Fioretti, che ha dato il
via agli studi moderni su San Francesco, il
libro circolava in varie edizioni italiane.
Nelle opere tarde Ruskin si riferisce ai
Fioretti con parole di apprezzamento. Egli
pensava che l’opera fosse una buona lettura
per le giovani inglesi, come dimostra una
lettera che scrisse nel luglio 1883 all’amica
Geraldine Bateman, desiderosa di apprendere
l’italiano. Ruskin le inviò un libretto di
preghiere in latino e in italiano per iniziare
ad imparare l’italiano e le promise di
inviarle i Fioretti di San Francesco –
“graziosi e semplici e pieni di belle storie”
– quando avrebbe “imparato un po’ d’italiano”
(XXXVII: 462). La grazia e la semplicità dei
Fioretti sono indicate come qualità da
Francesco De Sanctis, che li definisce “il più
amabile e il più amato dei libri medievali per
bambini”. La “semplicità” dei Fioretti è
oggetto di dibattito critico, certamente per
Ruskin, così come per De Sanctis, semplice e
infantile sono categorie estetiche e morali
che avevano uno scopo educativo e formativo, e
che egli ritrovava negli affreschi di Giotto
che lo incantavano negli anni 1870. La maggior
parte delle sue opere tarde sono rivolte ai
giovani.
L'associazione del libro di
Francesca con i Fioretti potrebbe
implicare qualcosa di più di una generica
allusione evocativa. Il collegamento era stato
fatto per la prima volta all’inizio del giugno
1883 dal cardinale Henry E. Manning, nella sua
lettera di ringraziamento per la copia di The
Story of Ida. Concludendo la sua
introduzione a The Hidden Servants di
Francesca Alexander, Anna Fuller riporta le
parole del cardinale:
È
semplicemente bellissimo, come i Fioretti di
San Francesco. Tali fiori possono crescere
solo in un terreno. Si possono trovare solo
nel giardino della Fede, sul quale il mondo
della luce incombe visibilmente, ed è visto
più intensamente dai poveri e dai puri di
cuore che dai ricchi, o dai dotti, o dagli
uomini di cultura.
Scrivendo alla signora Alexander il 22 giugno,
Ruskin fa riferimento a una lettera di Manning
che aveva inoltrato a Francesca. Cook e
Wedderburn ci informano laconicamente che
Ruskin "vide qualcosa del cardinale Manning
nei suoi ultimi anni" e che “alcune lettere
del cardinale erano accompagnate da doni di
libri come i Fioretti di San Francesco”, ma
nell’edizione della Biblioteca non c'è alcun
riferimento al dono, né siamo informati che fu
il cardinale Manning a tradurre e pubblicare
per la prima volta i Fioretti in inglese nel
1864 con il titolo di Little Flowers of St
Francis. Il riferimento di Manning ai Fioretti
in relazione a The Story of Ida
riecheggia la sua stessa prefazione alla
traduzione, in cui definiva le storie dei
santi poveri raccolte nel florilegio anonimo,
come “mirabili poesie in prosa” che possono
essere giustamente paragonati a fiori che
testimoniano la stagione che li ha fatti
nascere, ma non rivelano il nome del
giardiniere che li ha piantati. Ogni pagina di
questo piccolo libro respira la fede e la
semplicità del Medioevo. [...]. In effetti,
nessun autore avrebbe potuto comporre questo
libro. Compilato da una varietà di fonti, è
come se fosse il lavoro di un intero secolo.
Nella
sua prefazione, Manning sottolineava anche che
i Fioretti non erano da considerarsi come
“schizzi banali e superficiali, destinati solo
a far conoscere al pubblico le austere virtù
del chiostro”; piuttosto, le storie, nella
"loro grande semplicità", erano "piene di
forte dottrina, e adatte a uomini
profondamente versati in teologia", e
fornivano una lettura tipologica di episodi
delle vite di San Luigi, di Santa Chiara e di
San Francesco, riconoscendo l'illustre
studioso francese, il professor Ozanam, come
sua fonte. L’edizione di Manning era, infatti,
fortemente debitrice di Frédéric Ozanam
(1813-1853), un illustre studioso cattolico
che aveva tradotto in francese una selezione
dei Fioretti. Questa costituisce una parte del
suo ampio studio storico-letterario sulle
fonti, Poètes Franciscains en Italie au
treizième siècle (1852), corrispondente al
capitolo VII, intitolato “Les Petits fleurs de
saint François”. Gli studi storici e letterari
si fondono con l’impegno sociale in Ozanam,
che fu anche fondatore della Società di San
Vincenzo de’ Paoli. Questo duplice impegno
emerge nei suoi studi sulla prima poesia
francescana, dove vengono messi in evidenza il
valore poetico e religioso della povertà. La
povertà è vista anche come cifra stilistica da
Ozanam, che elogia i Fioretti come vera poesia
e vede nella prosa la forma più adatta a
raccontare l’epopea dei poveri. Non
sorprende quindi scoprire che, tra le pale
d'altare incontrate nelle sue cavalcate per i
borghi umbri, abbia cercato quella in onore di
Santa Zita.
In Roadside Songs
Ruskin dà un ruolo di primo piano a Santa
Zita, serva e patrona di Lucca. Nei primi due
numeri inserisce i disegni di Francesca e la
"Ballata di Santa Zita", seguiti da una lunga
nota sulla sua agiografia. Una serie di
corrispondenze ci inducono a credere che
Ruskin conoscesse l'opera e il pensiero di
Ozanam. Studioso della poesia e dell'arte
medievale e attivamente impegnato in opere di
beneficenza, Ozaman aveva tutte le
caratteristiche per attrarre l'interesse di
Ruskin.
L'opera di Frédéric Ozanam
era stata introdotta in Inghilterra da
Kathleen O'Meara nella sua biografia del 1876.
Due anni dopo apparve una seconda edizione del
libro con una prefazione di quindici pagine
del cardinale Manning, in cui Manning faceva
una vera e propria dichiarazione politica che
era in effetti un appello ai cristiani europei
e al clero all’azione. Il cardinale presentava
Ozanam come “uno dei più brillanti della
brillante schiera” di scrittori cattolici
francesi del XIX secolo che aveva lasciato “un
segno indelebile nel Paese”. Il suo contributo
risiedeva nella proposta di una futura
Repubblica d'Europa, un'idea nata dal
"fascino" esercitato dalla cultura medievale
unita alle moderne teorie socio-politiche. Le
questioni che il cardinale Manning solleva
nella sua Prefazione sono di importanza
fondamentale per Ruskin, e possiamo immaginare
il loro emergere negli scambi tra i due amici
nei primi anni Ottanta del XIX secolo.
Manning potrebbe essere
stato il veicolo con cui Ruskin ha conosciuto
Ozanam attraverso la biografia di O’Meara, e
ulteriori echi nei Roadside Songs sembrano
supportare questa ipotesi. Nell’introdurre i
Fioretti, O’Meara riporta un velato
riferimento di Ozanam alla moglie Adèle - che
egli chiama la sua “Beatrice” - e alla sua
“mano delicata” nel tradurre i “piccoli
fiori”. È interessante notare che, nel
riportare queste parole, O'Meara amplia la
metafora floreale implicita nei Fioretti e li
definisce come i "fiorellini profumati che
crescevano nei punti più bassi lungo la
strada". Si è tentati di immaginare che
Roadside Songs of Tuscany possa essere stato
ispirato dall'immagine di O'Meara. Un
riferimento che sarebbe stato particolarmente
appropriato per Francesca, la cui "mano
delicata" non solo aveva trascritto e tradotto
le poesie, ma le aveva anche illustrate con i
suoi straordinari disegni floreali. La catena
di connessioni e corrispondenze può essere
letta come un'associazione di fiori e canzoni
a più livelli che ha determinato la scelta di
Ruskin del titolo finale del libro. Come
sappiamo, i titoli delle ultime opere di
Ruskin sono il risultato di processi
semioscuri, densamente personali e altamente
evocativi.
L'eccitazione e un senso di
inadeguatezza che Ruskin esprime nelle sue
lettere su Roadside Songs dopo
l’estate del 1883, quando aveva concepito il
senso pieno del progetto, possono essere così
messe in relazione con la complessità
dell’impresa e la “santità” del modello dei Fioretti.
Intorno al 10 maggio Ruskin
riceve da Firenze il "Libro di Francesca". Il
13 condivide con lei il suo "sconcerto" per la
sua bellezza e preziosità, confidando che
“presto saprà quanto prezioso [diventerà] per
un numero incalcolabile di persone”. Accennò
alla necessità di cambiare la forma del
manoscritto e, annunciando l'imminente
pubblicazione de La storia di Ida, disse che
una volta che Ida avesse cominciato a essere
conosciuta avrebbe fatto conoscere "questo
libro" a Oxford.
La Storia di Ida è la prima
opera di Francesca pubblicata da Ruskin e
quella più aderente all’originale. Quando
Ruskin vide per la prima volta il manoscritto,
fu colpito dall'associazione tra la fragile
fanciulla italiana e Rose La Touche, la
giovanissima donna che amò in modo
appassionato e disperato, che morì nel 1875.
Ma a colpirlo fu anche il potenziale ecumenico
della storia, come riferisce Francesca:
Parlò
molto della mia piccola storia di Ida, che
aveva appena letto, e mi lasciò senza fiato
proponendomi di portarla via e di farla
stampare. Disse che sarebbe stato un libro
religioso molto utile [...] soprattutto per
l'assenza di ogni sentimento settario in esso,
e si rallegrò molto della forte amicizia e
simpatia religiosa tra me e Ida, appartenenti
come eravamo a due chiese diverse e
solitamente opposte. E a proposito di questo,
parlò con molta tristezza dell'inimicizia tra
le diverse sette cristiane, dicendo che aveva
conosciuto buoni cristiani, in tutte (e questa
è anche la mia esperienza personale).
La necessità di colmare la
frattura tra le Chiese protestanti e
cattoliche e di superare quella che
considerava una delle maggiori barriere
culturali che dividevano l'Europa
dall'Inghilterra (e che dividevano la stessa
Inghilterra), era una forte preoccupazione del
tardo Ruskin, e il potenziale che trovò
nell'opera di Francesca, una pia donna
evangelica americana che raccoglieva le poesie
religiose dei contadini cattolici, divenne
gradualmente più chiaro. A questo punto,
l’idea di conservare il manoscritto al St
George’s Museum aveva lasciato il posto alla
prospettiva di una pubblicazione - forse
imminente – dell’opera. Nel frattempo, aveva
ricevuto da Francesca i “brevi schizzi
biografici” che dovevano accompagnare i
disegni. Sebbene non ancora completamente
definita, anche l'idea di una pubblicazione in
forma seriale stava prendendo forma. Il 24
ottobre 1883 Fanny scrisse all’amica Lucy
Woodbridge: “Una parte del libro delle Roadside
Songs sarà stampata in numeri, ma non so
quanto, né quando apparirà”.
I dieci numeri di Roadside
Songs of Tuscany apparvero tra l’aprile
1884 e l’agosto 1885. Ruskin lavorò
intensamente a un numero alla volta,
conquistando l'attenzione del pubblico passo
dopo passo. Ognuno degli esili numeri era
costituito da 25-30 pagine di materiali
eterogenei: alcune canzoni popolari, due
disegni e i bozzetti in prosa dei contadini di
Francesca, ed infine alcune note dell’editore.
Nel dicembre del 1884 erano usciti quattro
numeri, suscitando delle perplessità nei
recensori, che faticavano a definirlo. Un
lungo articolo nell’Evening News and Star di
novembre prevedeva che “una volta completata”
l’opera sarebbe stata “probabilmente unica nel
mondo dell’arte e delle lettere”. Quando
l’intera opera apparve, nel settembre 1885,
sotto forma di un volume cartonato in folio di
340 pagine, fu accolta come un “libro molto
sontuoso” il cui interesse storico-sociale per
il pubblico britannico era, secondo il
recensore, compromesso dal formato
difficilmente accessibile.
Nel corso della redazione
Ruskin aveva completamente riorganizzato il
manoscritto di Francesca, selezionando i
disegni e i canti popolari e cambiandone
l’ordine, in modo da mettere al primo posto la
Ballata di Santa Zita, invece dei due inni
religiosi che aprivano il manoscritto, e
chiudendo il libro con una versione della
leggenda di San Cristoforo che aveva chiesto a
Francesca di trasporre in prosa per rendere
più chiaro il racconto. La sezione centrale
comprendeva due lunghi canti religiosi - La
Madonna e il ricco e La Madonna e la zingara -
e il disegno di Francesca di Cristo e la donna
di Samaria accompagnato da una nota del
traduttore. Questi testi costituivano
l’ossatura della raccolta, quella che potremmo
definire la sua cornice cristiana, ed erano
costruiti intorno ai disegni di Francesca.
Ruskin attribuiva grande importanza alle
persone che avevano posato per i disegni, gli
"originali" - come li chiamava Francesca -
della Madonna, della Samaritana, di San
Cristoforo e della Zingara. Vedeva una
risonanza nelle loro vite con gli episodi e le
leggende del Vangelo di cui parlano le
canzoni. Pensava alle loro storie come a nuovi
Fioretti, storie di santi poveri e quotidiani,
sopravvivenze di quello spirito monastico di
cui era sulle tracce da qualche anno. Lo
suggerisce la prefazione del curatore al primo
numero, dove informa il lettore che Francesca
aveva scelto i suoi modelli perché
condividevano alcune “circostanze e abituali
toni d’animo” con le figure dei santi che
rappresentavano.
Originariamente destinati
solo a integrare i disegni, i brani sulla vita
dei contadini costituiscono in realtà la parte
più consistente di Roadside Songs of
Tuscany: 136 su 340 pagine, circa due
terzi dell’intero libro. Il loro rilievo è
assicurato da un indice di ventuno nomi che
apre il volume, in cui sono elencate le
“Persone di cui si tratteggiano i caratteri, o
si dà conto di alcuni passaggi della loro
vita, a illustrazione dei canti di Toscana”.
Gli schizzi in prosa sono riportati “nei
termini colloquiali, o francamente epistolari,
di Francesca stessa, come la migliore
interpretazione delle leggende che lei fa
rivivere per noi, in queste immagini nella
loro esistenza vivente”. Ruskin insiste sulla
corrispondenza tra i personaggi dipinti e
quelli reali, che sono l’incarnazione dei
personaggi delle ballate: la modella di Santa
Zita, la santa serva, era in realtà una
“perfetta serva contadina doverosa e felice”,
che in realtà lavorava senza salario, e la
zingara è in realtà una ragazza di sangue
gitano che aveva salvato un ragazzino quando
le altre donne non avevano dato prova di
coraggio.
Ruskin
afferma la prossimità, la corrispondenza tra
personaggio e modello, come se i disegni
fossero in realtà la prova della veridicità
delle storie raccontate nelle poesie. Per
questo commissiona a Francesca i particolari
biografici dei modelli, i contadini. Questi
ora accompagnano le poesie e, per Ruskin, sono
più importanti del libro originale che
illustrano. I brani biografici sono "porzioni
di vita", che egli conserva nel libero stile
colloquiale della lettera come la migliore
interpretazione delle leggende che incarnano.
(Opere XXXII, p. 54).
Tuttavia, in Roadside Songs
l’associazione tra un santo e il suo
“originale” si rivela tutt’altro che
sistematica; a volte è solo accennata, una
mera suggestione, e a volte viene abbandonata
a favore di un altro personaggio che nel
quadro appare in modo sfocato e distante.
Francesca ci racconta con voce narrativa
sicura e assertiva di Gigia, Lucia Santi,
Geminiano Amidei, Emilia, Paolina, dei loro
fratelli, delle loro madri, delle loro
cognate, dei loro vicini, dei loro asini:
ricreando di fatto un’intera comunità.
“Tuttavia”, scrive Ruskin a un certo punto,
“non sto scrivendo una storia di Cutigliano,
ma di Assunta, che abitava in una delle sue
stradine ripide e strette, con gradini bassi,
ma con bei giardini tra le vecchie case, e
rose e gelsomini ai muri”. Ruskin, il maestro
e mentore che educa Francesca al disegno, le
conferisce anche lo status di narratore,
incoraggiandola a scrivere un'infinità di
storie che confluiranno nella successiva
raccolta di racconti pubblicata a puntate con
il titolo Christ's Folk in the Apennine
(1887-1889).
Questi
“pezzetti” in prosa si susseguono in ogni
numero di Roadside Songs. Si crea così
l'effetto di una comunità di persone con cui i
lettori britannici familiarizzano
gradualmente, come con i personaggi dei
romanzi vittoriani a puntate. Si intrecciano
anche con il gruppo di testi dei rispetti -
canzoni più brevi composte da versi
endecasillabi - e degli stornelli, brevi
canzoni proverbiali di tre righe ciascuna
incentrata su un fiore (ad esempio "Flower of
the Pea", "Flower of the Maize"). Il disegno
di Francesca – “sincero e vero come il sole;
operoso, [...]; modesto e disinteressato, come
sempre fu il lavoro del buon servo per l’amato
padrone” - coglie e rende queste
corrispondenze con “candore e mancanza di
ostentazione”. È interessante notare che le
ballate e i canti riportati e tradotti
trattano tutti di incontri tra sconosciuti: la
Madonna e il ricco, la Madonna e la zingara,
così come il disegno di Cristo e la donna di
Samaria. Inoltre, tutte le figure coinvolte in
questi incontri sono donne, come modelli di
benevolenza e accoglienza, e alla femminilità,
nella raccolta, Ruskin attribuisce un "potere
di guida".
L'intervento editoriale di
Ruskin è massiccio. Organizza l’opera in modo
da dare rilievo alla cornice cristiana e ai
ritratti e alle vite dei contadini,
aggiungendo note utili ad orientare i testi e
rendere il discorso rilevante per la Gran
Bretagna contemporanea all’interno del più
ampio contesto continentale. La lunga “Nota
sul carattere degli zingari” è un duro attacco
all’intolleranza britannica, in cui Ruskin
indica la “saggezza molto più felice” dei
contadini italiani dimostrando “quanto
profondamente e crudelmente il disprezzo della
razza zingara si fosse infisso nelle menti
delle prospere classi medie della nostra
isola, all’inizio del secolo”, riferendosi
alla voce del 1797 dell'Encyclopædia
Britannica.
In concomitanza con la
nascita dell’interesse per il mondo contadino
a partire dagli anni Settanta del XIX secolo,
Roadside Songs of Tuscany fu percepito come
un’opera composita il cui interesse
etnografico fu presto riconosciuto.
Nell’assemblare i testi e le immagini, Ruskin
compie un complesso atto di mediazione
culturale attraverso molteplici processi di
traduzione. Per trasmettere il senso di
un’intera cultura che stava scomparendo, egli
impiega una varietà di materiali per
rappresentare quel mondo. Egli utilizza in
forma sperimentale varie forme di traduzione:
da quella interlinguistica a quella
intersemiotica - che coinvolge musica,
disegno, biografie, note di redazione - per
cercare di rappresentare quello "spazio di
realtà". Se la traduzione è un mezzo
fondamentale di trasmissione culturale, l'uso
di materiali eterogenei si è rivelato
funzionale alla trasmissione di quella realtà:
è un "fatto inevitabile", dice Lotman, "che lo
spazio della realtà non può essere
rappresentato da una sola lingua ma solo da un
aggregato di lingue". (Lotman, Cultura ed
esplosione, 2009, p. 2).
È questo il complesso lavoro editoriale che ha prodotto il “sontuoso” libro a partire dai delicati fioretti di Francesca. L’intervento di Ruskin rimodella e trasforma profondamente il manoscritto originale, per lasciare che le sue “dramatis personae”, le voci e le forme dei contadini, prendano la scena. Il libro si chiude con due sezioni di lettere di Francesca che raccontano altre storie riportate dalla sua domestica Edwige, su donne e bambini, sulla vita familiare e sull’aiuto reciproco, sulla povertà e sulla carità. Il volume si conclude con la preghiera della sera che, assicura Francesca in una nota, tutti i contadini cantano ai loro bambini. È un finale appropriato per un libro che non voleva essere un monumento di una visione idealizzata della vita rurale, ma un memoriale di contadini toscani viventi che mirava a riaccendere, nella Gran Bretagna moderna, quel misticismo della vita quotidiana che Ruskin vedeva come il nucleo dell'eredità del primo monachesimo che ricercava all'inizio del suo viaggio del 1882.
Mascolinizzazione della "Patria": analizzare The Home and the World di Rabindranath Tagore attraverso una lente ecofemminista - Pritha Chakraborty
l'India del
diciannovesimo secolo era basata sulla mascolinità
egemonica in cui l'onore degli uomini era
significativamente correlato alla loro prova di
mascolinità egemonica. Ciò include il
mantenimento della loro cavalleria e del loro onore
limitando il confine tra le donne e la nazione e
consentendo loro di funzionare secondo il manuale di
istruzioni degli uomini e la potente politica che ruota
attorno a loro. Peterson
osserva: “La patria è il corpo di una donna e come tale
è sempre in pericolo di violazione da parte di maschi
'stranieri'. Difendere le sue
frontiere e il suo onore richiede una vigilanza
implacabile e il sacrificio di innumerevoli cittadini
guerrieri…” (80). In questo
contesto, si può notare che l'approccio di Sandip e i
suoi falsi discorsi oratori per istigare Bimala a
violare la propria "casa" contrasta paradossalmente con
il motivo di liberare il paese dalle grinfie del
colonialismo. Benedict
Anderson osserva che una nazione è una "comunità
immaginata". Sostiene
chiaramente il fatto che una nazione che aderisce
interamente alle ideologie e alle credenze dominanti e
sostiene il sistema di inclusione ed esclusione è
destinata a essere uno sforzo immaginario e non ci si
aspetta che ne venga tratto nulla di concreto.
Il grido di
Sandip al nazionalismo rimane un grido vuoto, privo di
devozione e basato esclusivamente su guadagni personali.
La sua teoria
del boicottaggio delle merci straniere e del costringere
gli innocenti abitanti del villaggio a rinunciare al
loro commercio era una fonte di violenza oltraggiosa nel
nome della liberazione del paese dal dominio straniero.
Il suo concetto
di nazionalismo era pretenzioso e divenne dannoso per
gli indù e i musulmani della nazione. Aveva provocato
i giovani del villaggio di Nikhil a imporre la violenza
contro i vicini poveri e innocenti in modo che fossero
terrorizzati nell'accettare il suo stesso concetto di
nazione. Come notato da
Leonard A. Gordon, “Il movimento nazionalista indiano
così come si sviluppò nel Bengala durante l'ultimo
quarto del diciannovesimo secolo era dominato da indù di
alta casta... ma i musulmani del Bengala erano rimasti
indietro rispetto agli indù nell'istruzione, nelle
professioni e i servizi
governativi. La maggior parte
dei musulmani erano coltivatori di classe inferiore nei
distretti orientali del Bengala vero e proprio” (278).
Mentre per
Nikhilesh l'idea di Swadeshi implicava l'inclusione di
tutte le comunità della nazione, l'idea incentrata sulla
religione di Sandeep e l'ulteriore esclusione di una
certa sezione di persone dall'unire le mani per liberare
la madrepatria hanno rappresentato un fallimento del
progetto nazionalista. Anita Desai in
questo contesto sottolinea che Sandip “non assomiglia
tanto al convenzionale mascalzone del palcoscenico
indiano o del cinema di Bombay, che si accarezza i baffi
a manubrio mentre gongola davanti a una borsa d'oro e a
una fanciulla rannicchiata” (55).
Il corpo di
Bimala rappresenta quindi un luogo di guerra e un
possesso da saccheggiare e saccheggiare in nome della
salvezza della nazione. Rivendicarla
attraverso falsi discorsi oratori agisce come mezzo di
strumentalizzazione del genere. La sua
rappresentazione come "Dea Madre" le fa pensare che sia
suo dovere proteggere l'onore della nazione.
L'erotizzazione
della nazione rispetto al corpo delle donne non solo le
pone all'interno dell'idea di nazionale, ma le rende
anche portatrici di culture e quindi più vulnerabili
alla violenza. La loro
inclusione nel conflitto serve come mezzo per
influenzare la generazione futura e coinvolgerla nel
grido fanatico per la liberazione della nazione.
Mrinalini Sinha
afferma che le donne hanno l'onere di bilanciare la
"tradizione" (22) della tradizione precoloniale e della
modernità postcoloniale. Ci si aspetta
che cerchino la modernità con l'astuzia della
tradizione, dove lei agisce come sostenitrice e
preservatrice della cultura. Bimala è
considerata l'appassionata sostenitrice di questa
tradizione in cui la sua preferenza per la casa è una
presentazione paradigmatica dell'armonia che cerca
attraverso l'aspetto devozionale della femminilità.
La sua storia
inizia con la sua dedizione verso la sua casa e finisce
con il ritorno ai modi di casa dopo aver visto
attraverso i motivi malvagi di Sandip.
L'intera idea di
appartenenza a una nazione diventa di genere dove ci si
aspetta che gli uomini siano mascolini e mostrino tratti
masochistici nel salvare la nazione mentre le donne
dovrebbero essere sacrificali, fedeli e pure.
In Burdens of
Nationalism, Uma Chakravarti menziona come in Sri Lanka,
gli uomini fossero quelli che partecipavano ai conflitti
armati, mentre ci si aspettava che le donne
attribuissero valori sentimentali e soffrissero per la
perdita. La creazione
dell'idea delle donne come madri ha collegato loro il
concetto di riproduzione in cui sono legate a un
costrutto eterosessuale che le subordina solo.
Sebbene Bimala
come moglie rispettosa e responsabile sia stata attratta
dalla seduzione di Sandeep e dal suo confronto con la
Dea Madre, la eleva a un piedistallo dove è ispirata a
convincere il proprio marito ad adottare i mezzi
violenti e sostenere Sandeep nel bruciare il
beni stranieri a
favore di beni swadeshi edificanti, è divisa tra la
"casa" e il "mondo" in cui è il suo "zenana" con cui si
connette e a cui vuole tornare fino a quando non è
troppo tardi e Nikhilesh viene coinvolta la turbolenta
violenza nella nazione. Significa quindi
che in nome della nazione e del nazionalismo, le donne
sono intrappolate tra il fervore della politica degli
uomini dove lei rimane un burattino nelle loro mani
proprio come il paese è destinato a soffrire per mano
della politica violenta come osserva Maria Miles,
“Dall'inizio del
moderno stato-nazione (le patrie) le donne sono state
colonizzate. Ciò significa
che il moderno stato-nazione controllava necessariamente
la loro sessualità, la loro fertilità e la loro capacità
lavorativa o forza-lavoro. Ed è questa
colonizzazione che costituisce il fondamento di quella
che oggi viene chiamata "società civile".
La
militarizzazione degli uomini in nome della costruzione
della nazione non colpisce solo le donne di altre
comunità, ma anche le donne della propria comunità»
(27).
Il grido di
Bankim Chandra Chatterjee per l'India indipendente
attraverso la canzone nazionale di "Bande Mataram" nel
suo famoso romanzo Anandamath (1882) in cui la
madrepatria è lodata al massimo per essere portatrice di
una ricca cultura e patrimonio, si sposta
sistematicamente allo "stato padre" attraverso
l'inizio del
secolo in cui "Patria", che inizialmente si riferiva al
Bengala, si spostò in India e il paese fu "violentato"
in nome del nazionalismo. Il ricco
patrimonio culturale della nazione fu diviso tra diverse
comunità quando i semi del comunalismo iniziarono a
violare la nazione con la divisione del Bengala nel
1905, dove le aree orientali in gran parte musulmane
furono separate dalle aree occidentali in gran parte
indù. Nikhilesh come
portavoce di Tagore nel romanzo, parla dell'unione di
indù e musulmani nella lotta contro il colonialismo in
contrasto con il punto di vista di Sandeep di escludere
i musulmani dagli sforzi nazionalistici, poiché secondo
lui il Bengala era solo la terra degli indù
.
Tale
polarizzazione della nazione in nome del bigottismo e
della religione ha portato all'ulteriore disintegrazione
di una "patria" in cui la guerra ha costituito la
creazione di un paese maschile privo di umanità e
devozione. Tagore nel suo
discorso di accettazione del Premio Nobel osserva:
“Dobbiamo scoprire l'unità più profonda, l'unità
spirituale tra le diverse razze. L'uomo non deve
combattere con altre razze umane, altri individui umani,
ma il suo compito è portare la riconciliazione e la pace
e ristabilire i legami dell'amicizia e dell'amore”
(Arun).
In nome del nazionalismo arriva la distruzione della
terra da cui migliaia di persone sono state sradicate,
la terra è testimone di violenze comunitarie, omicidi di
massa, morte di persone innocenti e divisione della
nazione in nome della religione. In un contesto
simile, osserva Shiva, “il malsviluppo è visto qui come
un processo mediante il quale la società umana emargina
il gioco del principio femminile nella natura e nella
società. Il crollo
ecologico e la disuguaglianza sociale sono
intrinsecamente legati al paradigma di sviluppo
dominante che pone l'uomo contro la natura e le donne”
(46). Il modo
estremista di boicottare le merci britanniche ha
provocato grandi difficoltà per i piccoli commercianti e
contadini rurali, la maggior parte dei quali erano
musulmani e indù di bassa casta. La costruzione
di Chandranath Babu da parte di Tagore nel romanzo era
basata sulla figura di Ashwini Kumar Dutta del Bengala,
il cui sostegno allo sviluppo rurale era da lui
fortemente ammirato.
L'erotizzazione della Nazione con l'amante diventa
l'aspetto più inquietante del romanzo. Sandeep riunisce
l'amante e la madrepatria; Bimala e il
Paese diventano una cosa sola. Come nota Tanika
Sarkar nel suo lavoro, "L'emozione che anima entrambi, e
l'emozione che evocano, sono chiaramente erotici... La
madre protegge, l'amante conduce alla distruzione" (35).
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Il leone Marzocco fiorentino nella poesia
politica e civile trecentesca minore di area toscana,
similitudini con il contesto indiano - Marialaura Pancini
Il leone fin dall’antichità ha esercitato
un certo fascino nell’immaginario umano divenendo oggetto di
una serie innumerevole di similitudini, metafore e immagini
simboliche che attraversano le culture, le aree geografiche e
le epoche. Se si osserva il panorama della poesia politica e
civile trecentesca minore di area toscana si può vedere che il
leone come simbolo della città di Firenze è molto presente nel
repertorio tematico dei rimatori toscani, in particolare
fiorentini. Lo scopo di questa presentazione è quello, in
primo luogo, grazie all’utilizzo di testi concreti afferenti
al genere della poesia politica e civile trecentesca minore di
area toscana, di delineare quella che è la considerazione che
si ha del leone e la simbologia che è legata a questo animale
in questo contesto storico e geografico. In secondo luogo, si
evidenzieranno quelle che sono le similitudini tra l’immagine
del leone nel contesto toscano medievale fiorentino e la
simbologia che il contesto indiano attribuisce.
Appare a questo punto necessario
premettere che si tratta di una selezione di testi arbitraria,
fatta sulla base del criterio di eterogeneità,
rappresentatività e ampiezza dell’argomento, si è scelto,
infatti, di dare maggiore importanza ai testi nei quali si fa
ampiamente riferimento al leone Marzocco fiorentino. Per non
essere troppo prolissi e non allontanarsi troppo dal focus
fiorentino della presentazione e del convegno, si eviterà di
citare tutti i casi – anche se questi sono numerosi- di
riferimenti brevi e poco significativi al leone come metafore,
frasi gnomiche etc. che non hanno una vera e propria
tematizzazione nel testo, ma sono solamente costrutti fissi
popolari.
Si esamineranno, quindi, una serie di
casi concreti nei quali si fa riferimento al leone come
simbolo della città di Firenze rappresentato attraverso il
leone Marzocco.
Il sonetto Il lion di Firenze è
migliorato viene scritto in occasione dell’acquisto da
parte di Firenze di Arezzo. Il sonetto anonimo gioca con gli
animali araldici presenti nei gonfaloni delle città toscane e
nasconde, dietro riferimenti a prima vista zoologici, la
narrazione delle vicende politiche di quegli ultimi anni. La
prima quartina, attraverso l’animale simbolo di Firenze, il
leone marzocco, ora «migliorato» v.1 dopo che «lungo tempo è
stato in malattia» v.2, descrive i trascorsi della città di
Firenze. La città, dopo le sconfitte subite dalla ghibellina
Pisa di Uguccione della Faggiola (1315) e dopo il periodo
dell’infruttuosa signoria di Carlo, Duca di Calabria (1325), a
questa altezza cronologica riprende la sua politica di
espansione verso le zone limitrofe, Arezzo è proprio una di
queste . La quartina in questione esalta la conquista della
città di Arezzo, rappresentata attraverso il «Cavallo
sfrenato» elemento caratteristico del gonfalone aretino ,
attraverso tale azione la città di Firenze vede compiersi la
sua signoria, il suo potere su Arezzo. Si allude anche al
compimento di una profezia «che Daniello aveva profetizzato»
v. 8 e che ora è «tutta adempiuta» v. 7. I versi
potrebbero riferirsi al libro di Daniele, nel quale viene
descritto un sogno, dove sono protagoniste quattro bestie, la
prima bestia ha figura leonina con ali d’aquila, la seconda
bestia figura di orsa, la terza di leopardo, la quarta è una
bestia senza un preciso referente reale, ha molte corna e
distrugge tutto ciò che trova. La quarta bestia viene «uccisa
e il suo corpo distrutto e gettato a bruciare sul fuoco. Alle
altre bestie fu tolto il potere e fu loro concesso di
prolungare la vita fino a un termine stabilito di tempo.» .
Secondo l’interpretazione, che segue nel libro, le quattro
bestie rappresentano quattro re che si succedono nel tempo,
nonostante le prime bestie rappresentate nel libro di Daniele,
il leone e l’orsa trovino corrispondenza con i versi resta
però piuttosto oscuro il collegamento tematico, non è quindi
certo il riferimento. Nella terzina che segue si fa
riferimento, attraverso i loro animali araldici, alle città
toscane rimaste a guardare il crescere della potenza
fiorentina. Siena viene rappresentata come una lupa ferita
«scorticata» v. 9 e Pistoia come un’«Orsa» v. 9,
entrambe colpite dalla «branca» v. 10 del leone
fiorentino, che si è appropriato della città di Arezzo, e ha
inoltre con questo gesto messo in fuga le altre bestie
ovvero ha fatto arretrare le altre città toscane dalle loro
posizioni espansionistiche e di potere nella zona, dimostrando
la propria forza leonina. Nell’ultima quartina torna il tema
della profezia di Daniello del v. 8, questa si avvererà se il
leone fiorentino continuerà a fare «borsa» delle pelli «cuoi»
v. 13 degli animali che rappresentano le città toscane, se
quindi la città di Firenze affermerà la propria egemonia sulla
Toscana. La cauda è un avvertimento, posto in forma
proverbiale, che suggerisce di stare attenti alle persone alle
quali si è avuto fretta di commettere torti, perché in breve
tempo queste presenteranno la loro vendetta . Questa
conclusione gnomica potrebbe essere indirizzata o alla stessa
città di Firenze, invitandola a rimanere vigile su una
possibile vendetta della città toscane, oppure potrebbe anche
essere riferita alla vendetta che i fiorentini hanno attuato,
dopo le sconfitte subite nei primi anni del secolo ad opera
dei baluardi ghibellini Uguccione della Faggiola e Castruccio
Castracani.
Proprio in seguito alla compera di Arezzo
da parte di Firenze del 1385 Antonio Pucci e Franco Sacchetti,
autori fiorentini molto attivi nella scena politica della loro
città, si scambiano una tenzone in commento alla vicenda. Il
primo a dare avvio alla corrispondenza è Antonio Pucci, che
scrive e indirizza a Franco Sacchetti il sonetto Il veltro e
l’orsa e ‘l cavallo sfrenato . Il sonetto ricorda molto il
testo analizzato in precedenza Il lion di Firenze, dove i
riferimenti alle città toscane sono tutti espressi mediante
gli animali simbolo di queste. Nella prima quartina, Pucci
descrive la situazione di alleanza «parentado» v. 2 tra
Volterra: il veltro , l’orsa: Pistoia e il cavallo sfrenato,
ovvero Arezzo, e Firenze: il leone. Anche Il lion di Firenze
utilizza gli stessi riferimenti per Pistoia e Arezzo «l’Orsa»
v. 9 e «il Cavallo sfrenato» v. 4. Pucci conclude la quartina
ricordando Pisa: la volpe; il toro: Lucca; Siena: la lupa e il
grifone perugino alcune di queste città che menziona
sono poco turbate per l’accrescimento del potere fiorentino,
altre, invece, lo sono «molto» v. 4. La seconda quartina, si
incentra tutta su un riferimento ai tempi passati della guerra
tra Firenze e Pisa per la presa di Lucca del 1342. C’è infatti
un discorso diretto pronunciato dalla stessa volpe pisana che
rammenta la «tencione» v. 6 avuta con il leone fiorentino
perché «contra ragione» v. 7 Pisa «volea pigliar […] / il
toro» vv. 7-8. Il riferimento all’intrusione senza averne
diritto di Pisa nella compravendita di Lucca torna anche negli
altri testi di Pucci dove è trattata la vicenda. Seguono poi i
discorsi degli altri animali menzionati che rappresentano le
città: la lupa Siena, che esprime il suo dubbio per quanto
riguarda l’origine del suo cattivo rapporto con il leone
fiorentino. Il grifone di Perugia esprime invece la sua gioia
per essere da sempre «amico» v. 13 del leone fiorentino, il
rimando, come sottolinea anche Ageno , potrebbe verosimilmente
essere alla Guerra degli Otto Santi durante la quale Perugia
si ribella all’abate Géraud Dupuy, vicario papale
nell’amministrazione della città sottoposta al dominio
pontificio. Lo stesso Pucci descrive infatti dettagliatamente
la ribellione della città e la cacciata di Dupuy nel suo
Cantare della guerra degli Otto Santi, anche Franco Sacchetti
fa riferimento a Dupuy come il «porco monacese» v. 127 nella
sua canzone Hercole già di Libia ancor risplende. In
conclusione, Pucci si rivolge all’altro poeta e chiede il suo
parere sulla questione appena trattata.
Franco Sacchetti risponde per le rime
alla sollecitazione dell’amico ed esprime il proprio parere
con Se quella leonina ov’io son nato , riprendendo il sonetto
di Pucci fa riferimento a Firenze come «quella leonina» v. 1
dove lo stesso autore è nato. La sua risposta è però molto
critica nei confronti dell’atteggiamento fiorentino. Sacchetti
accusa, infatti, Firenze di non essere governata in maniera
tale da poter garantire il benessere per i suoi cittadini, che
dall’altro lato si sono sempre dimostrati a lei fedeli.
Sacchetti accusa direttamente la città di non contraccambiare
i suoi concittadini dello stesso amore che questi le hanno
riversato in passato. Secondo l’autore è questa la ragione per
cui le altre città «ogni animale che hai narrato» v. 5 si
astengono dal sottomettersi alla città del giglio «verebbe
sotto al florido pennone» v. 6, per quanto riguarda l’utilizzo
dell’aggettivo florido, al di là del riferimento alla
prosperità ci potrebbe essere un rimando etimologico con il
nome di Firenze, questo aggettivo è utilizzato da Sacchetti
anche in altri contesti sempre riferendosi a Firenze . Nella
seconda quartina Sacchetti chiarisce ulteriormente il motivo
del suo risentimento nei confronti di Firenze: delle persone
disoneste e incivili «rei villani» v. 7 attraverso menzogne
«con falso sermone» v. 7 si stanno allontanando sempre più
dall’esempio morale dei celebri «Bruto, Scipïone e Cato» v. 8,
non è un caso che vengano citati tre autori romani, in questo
periodo cronologico è infatti diffusa l’esaltazione della
romanitas fiorentina, che trae base dalle origini fiesolane
della città e vede Firenze come nuova Roma . Le terzine
mostrano un crescendo della disperazione del poeta che rimanda
nella prima terzina al credo cattolico, «nessun conosce grazia
da Colui / ch’ognora in essa tiene la mente pia» vv. 10-11.
Questa coppia di versi appare speculare nella struttura ai vv.
1-4, in questa prima quartina Sacchetti accusa Firenze di
ingratitudine verso i cittadini che per lei si dimostrano
fedeli, allo stesso modo nei vv. 10-11 Sacchetti accusa con un
generico «nessun» v. 10 di non mostrare gratitudine verso
colui che costantemente «ognora» v. 11 tiene conto della
città: Dio. In questo caso è presente un rovesciamento con la
narrazione che lo stesso Sacchetti fa, circa un decennio
prima, (1375-1378) della città durante la guerra degli Otto
Santi, dove Firenze è sempre fedele al divino e ai suoi
precetti e assume il ruolo, intriso di senso biblico, di
pastore e guida delle città ribelli in fuga dagli
ecclesiastici erranti rispetto ai valori divini paragonati ai
Faraoni. Nell’ultima terzina torna, come nell’ultima quartina,
il riferimento al tradimento della romanitas fiorentina. Sono
infatti silenti e assenti personaggi come Cicerone, Curio e
Silla, citati per antonomasia, chi governa adesso, infatti non
vanta un’ascendenza nota. Ageno in proposito segnala un
possibile riferimento al tumulto dei Ciompi del 1378 e alle
nuove arti dei farsettai e dei tintori proclamate in
quell’occasione, ma dopo poco abolite . Il riferimento al
tradimento dei valori della romanitas è tematica centrale
della canzone di Bindo di Cione del Frate Quella virtù, che ‘l
terzo cielo infonde dove attraverso un sogno appare Roma nei
panni di donna anziana che si lamenta per lo stato nel quale
riversa adesso la sua discendenza. Oltre al riferimento
tematico nella canzone ricorrono, insieme a molti altri
exempla di virtù, anche i nomi di Bruto, Scipione e Catone,
menzionati da Sacchetti.
I versi conclusivi di Fiorenza mïa, poi
che disfatt’hai , dello stesso Franco Sacchetti, fanno
riferimento allo stesso modo a Firenze attraverso il suo
animale simbolo che ricorre frequentemente nei testi presi in
esame: il leone marzocco, al quale la famiglia degli Ubaldini
aveva per anni creato problemi «dispettando» v. 47. Sacchetti
gioca inoltre sul significato figurato del verbo sommergere e
sull’accostamento del marzocco al golfo del Leone, per
precisare la fine che invece ha poi fatto la famiglia
«dispettando il leone, / che gli ha sommersi, e non nel mar
Leone» vv. 47-48. La stanza successiva prosegue, sulla scia
dei versi precedenti, questo gioco sulla parola leone
riferendosi a «Castel Leone» v. 49 nome con il quale si
identificava l’attuale Lévane , occupato dagli Ubaldini dal
dicembre 1372 al giugno 1373, che avevano con disonestà «di
furto avendol preso» v. 50 ai fiorentini. Riprendendo il tema
del v. 3 «superba» si giustifica tale irriverenza come mossa
dalla stessa superbia «tant'era su montata lor superba» v. 51
della famiglia. I vv. 52-54 tornano sul leone fiorentino,
elogiandone la superiorità «mag[g]ior leone» v. 52 e le azioni
di conquista.
Altri casi, significativi, nei quali si
fa riferimento a Firenze tramite il leone sono il v. 39 di
Deh, angeli ed arcangeli con truoni di Antonio Pucci,
dove il riferimento alle città viene espresso attraverso gli
animali simbolici che li rappresentano il leone per Firenze, e
la volpe per Pisa.
Anche in O Signor mio ch’agli apostoli
tuoi , Pucci conclude fornendo le coordinate temporali della
vicenda ai lettori «Contato v’ho di fino a mezzo luglio / de
l’anno sopradetto» v. IV.32.1-2 e descrivendo - attraverso una
metafora zoologica che vede protagonisti gli animali simboli
delle città toscane: il leone per Firenze e la volpe per Pisa
- la situazione attuale, lasciando trapelare qualche
anticipazione di quello che seguirà. Il leone fiorentino e la
volpe pisana si trovano ora uno di fronte all’altro a trattare
per una pace, i pisani sono però come di consueto inclini
all’inganno, i fiorentini dal lato loro non sono per nulla
sciocchi, verranno ingannati solo a causa della loro lealtà.
Allo stesso modo anche il cantare O
indivisa etterna Ternitade dello stesso Pucci anticipa
in chiusura quello che seguirà nel cantare successivo della
serie dei cantari della Guerra di Pisa, Pucci alimenta le
aspettative del pubblico annunciando quello che avverrà «Or vi
dirò s’ come di ragione / seppe la volpe qui più che [‘l]
leone» v. V.17. 7-8. Il cantare successivo, di conseguenza, fa
riferimento al tradimento del leone fiorentino «la volpe
a∙leon diè mala strenna / ch’avendol’ quasi a la pace promosso
/ e leopardi gli mandòne adosso» v. VI.12.6.
Interessante a proposito è anche il
sonetto O Pisa, vituperio delle genti di Filippo dei
Bardi. L’autore si rivolge alla stessa Pisa ricordandole che
nemmeno Dio la salverà dalle grinfie del leone fiorentino «E
non ti val chiamar quell’alto Teta» v. 4. Il leone viene
rappresentato in tutta la sua rabbia e maestosità che con i
suoi attributi «denti» v. 5; «artigli possenti» v. 7 è intento
senza freno a spargere il sangue pisano «che no si cheta /
Perché abbia rossi gli artigli possenti / Del sangue de’ tuoi
fi’ con tanta pieta» vv. 6-8.
La tenzone che vede coinvolti il
lucchese Pietro de’ Faitinelli e un anonimo rimatore pisano è
molto interessante perché vede il confronto diretto tra due
autori divisi in quel momento dall’assedio. Lo scambio di
sonetti risale infatti al periodo che va dal 25 settembre 1341
e il 2 ottobre dello stesso anno, periodo nel quale Firenze
occupa la città di Lucca non avendo ancora subìto la sconfitta
di Monte san Quirino e non avendo ancora lasciato Lucca in
mano pisana . Come nota Aldinucci , il sonetto di mano di
Faitinelli, Mugghiando va il Leon pel la foresta , ricorda il
sonetto analizzato Il lion di Firenze è migliorato, e si basa
come quest’ultimo sugli animali simbolo delle città toscane.
La città di Firenze, il leone , gioisce per la recente
conquista di Arezzo, il Cavallo disfrenato , e ha sotto
di sé anche Pistoia, l’orsa . Firenze aveva ottenuto, infatti
Arezzo nel 1336 come testimonia il sonetto Il lion di Firenze
è migliorato, anche la città di Pistoia è parte dal 1331 della
sfera di influenza fiorentina . Nei versi successivi, vv. 5-8,
entra in scena Lucca, la Pantera, dotata di un alito
ammaliatore che «presta» v. 5 questa sua peculiarità al
leone fiorentino permettendogli così di attrarre a sé i comuni
toscani . L’appoggio lucchese dei fiorentini si dimostra
vantaggioso anche in termini geopolitici, l’aver ottenuto
Lucca da Mastino della Scala permette a Firenze di
«accerchiare il territorio di Pisa da ogni parte» . Dopo
l’allusione al vantaggio che ottiene Firenze sui pisani ecco
che nei versi successivi anche la Lepre pisana fa la sua
comparsa nel testo, Pisa farà bene a stare attenta dal momento
che oltre alle città sopra citate anche Siena, la Lupa, si è
alleata con Firenze in prospettiva anti-pisana . La metafora
«il Leon e la Lupa odi ch’han fatto: / tes’han le reti e
vogliolla pigliare» vv. 10-11, usata per rappresentare le
trame che Firenze e Siena stanno mettendo in atto contro Pisa,
si allaccia alla rappresentazione delle città come animali e
tare origine dalla sfera della caccia , una metafora inerente
allo stesso ambito si trova anche nei sonetti Ceneda e Feltro
e ancor Monte Belluni e San Marco e ’l Doge. Per la Lepre
pisana non ci sarà scampo inutile fuggire come è solita fare
oppure riporre le speranze nella sorte, come viene espresso
attraverso l’utilizzo della metafora dei dadi , Firenze, il
Leone, e Siena, la Lupa, sono prossimi a distruggerla. Per
quanto riguarda il riferimento alla lepre come animale
erbivoro di scarso valore bellico, ma piuttosto incline alla
fuga e al rintanarsi si veda il sonetto Più lichisati siete
ch’ermellini di Folgore da San Gimignano uno tra gli
innumerevoli riferimenti alla Lepre pisana presenti nella
letteratura medievale .
A questo sonetto Faitinelli riceve
risposta da un anonimo rimatore pisano che gli indirizza
Amico, guarda non sia mal di testa . Il sonetto si configura
come una risposta diretta al lucchese e si basa sulla stessa
cerchia lessicale . La prima quartina riprende specularmente
il tema del sonetto di Faitinelli «ribaltandone ironicamente
il significato» sotto un’ottica pisana. Se il sonetto
lucchese narrava di un leone a testa alta per la felicità, qui
si invita l’«amico» v. 1 ad assicurarsi che il leone non sia
molestato dal mal di testa, che gli fa alzare la testa,
piuttosto che la felicità, oppure che non sia uno dei consueti
dolori, con una possibile allusione alle divisioni interne
alla città di Firenze . Il pisano continua con la
reinterpretazione del sonetto del lucchese, non c’è motivo di
essere allegri «come tu di’» v. 6, dal momento che Lucca, la
Pantera, si è dovuta sottomettere alla città di Firenze non
per sua volontà ma perché sottoposta al volere del suo signore
Mastino della Scala, perché costretta ad ubbidire: «per
mostrarsi ne l’ubidir presta» v. 8. La prima terzina
approfondisce ulteriormente il tema dell’acquisto di Lucca
definito spregiativamente come «baratto» v. 10, che si
rivelerà come un dolore più che una felicità per la Pantera
lucchese. Per quanto riguarda il Cavallo aretino, si invita
l’amico a stare attento che questo non si rivolti contro chi
lo sprona arditamente, il pericolo che rappresenta il cavallo
sfrenato di schiena è identificabile con quello che potrebbe
essere il pericolo di una rivolta contro i fiorentini ad
Arezzo, circostanza che effettivamente si verifica nel luglio
1341 ; in quegli anni avviene proprio il tradimento di «quel
da Pietramala», l’aretino Tarlato Tarlati, menzionato nella
canzone di Antonio Pucci O lucchesi v. XI.6, Arezzo dopo
essersi dapprima alleata con Firenze ordisce una congiura
contro la stessa città del giglio . Il v. 14 «talor di
schiena» potrebbe alludere, tra l’altro, alla posizione
geografica di Arezzo nei confronti di Firenze, che vista da
Pisa appare in posizione posteriore rispetto alla città
gigliata. Gli ultimi versi elogiano la Lepre pisana, questa
volta è lei ad essere allegra, questa non teme infatti le
trame che stanno tessendo contro di lei «quei falsi» v. 16 di
Firenze il Leone, e Siena la Lupa. Anzi in vigore delle sue
qualità: l’arguzia, la forza e il senno «non teme» v. 18 né
Firenze, né le città che questa ha posto sotto la sua ala:
Siena e Pistoia.
Se si osserva il contesto indiano, il
capitello di Sarnath, emblema della Repubblica Indiana,
rappresenta sull’abaco quattro leoni addossati, la maestosità
di questi leoni ricorda da vicino il Marzocco fiorentino. In
particolare, il pilastro di Ashokan eretto a Sarnath è quello
più iconico e celebrato dei pilastri di Ashokan , esso è
infatti raffigurato anche nella banconota da una rupia indiana
e sulla moneta da due rupie e inoltre è divenuto l’emblema
nazionale indiano. L’aspetto che in questa sede ci interessa
del pilastro è il capitello nel quale sono raffigurati quattro
leoni ognuno posizionato in direzione dei quattro punti
cardinali. I leoni hanno la bocca aperta e ruggiscono, il
leone nel contesto indiano, oltre ad essere simbolo di
regalità e potere, come nel contesto occidentale e fiorentino,
è anche simbolo di Buddha stesso. Nella base del capitello
sono scolpiti altri animali: un cavallo, un toro, un leone e
un elefante .
Come nel caso di Firenze, anche nel caso
indiano del capitello di Ashokan il leone diviene simbolo di
fierezza e possenza nel comando, ma allo stesso tempo viene
associato ad altri animali, sia nel caso del capitello che nei
casi dei sonetti presi in esame, come se sia nel contesto
indiano, che in quello fiorentino si volesse far riferimento
al leone sì simbolizzandolo e rendendolo un emblema di una
città ma allo stesso tempo senza estrapolarlo del tutto dal
suo contesto naturale nel quale si trova circondato da altri
animali e dalla natura.
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FRANCO SACCHETTI = FRANCO SACCHETTI, Il libro delle rime,
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Toscana e i suoi comuni, storia, territorio, popolazione,
stemmi e gonfaloni delle libere comunità toscane,
Venezia, Marsilio, 1995.
Website
http://www.sarnathmuseumasi.org/gallery/Gallery3%20Acc%20No%20355.html
Gandhi's
possessions at his death, his glasses, his sandals, etc.
Prega, rifletti e poi fai:
questa regola (di Gandhi) ottenne l'independenza
dell'India/
Arjun Shivaji Jain received a Master of Science in
Physics from the Indian Institute of Technology in
Roorkee, Uttarakhand in 2014, and a Post Graduate
Certificate in Art and Science from Central Saint
Martins of the University of the Arts in London in 2016.
Recipient of multiple scholarships and fellowships
instituted by the Department of Science, Govt. of India,
and having worked at the Indian Institute of Technology
and National Science Academy in Delhi, and the National
University of Singapore, he has assumed various
disparate roles over the years (including, but not
limited to, waiting tables, invigilating galleries,
housekeeping, gardening, felling trees, & teaching).
Self-published and well-travelled, he is serving at
present as the first Young Companions' Representative of
the Guild of St George, UK, whilst working, in a
personal capacity, as a visual artist. He is proprietor
of the John Ruskin Manufactory, and director at Red
House, here in Delhi where he currently resides.
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